Lettera alla “te” che sei sempre stata

Un racconto sul disturbo post-traumatico da stress

Cara mia Nellina,

so che ti arrabbi molto quando ti chiamo così, lo hai sempre detestato. Quando eri piccola arricciavi il naso e stringevi le braccia al petto, poi crescendo iniziavi a guardarmi con uno sguardo intenso ogniqualvolta pronunciavo le prime sillabe. “Papà chiamami Ornella. Cosa ti costa?” dicevi ma, in fondo, so che oramai anche tu sei un po’ affezionata a quel diminutivo.

Ho deciso di scriverti, così come hai fatto tu, anche se non è da me, anche se non l’ho mai fatto, mai neanche quando hai raggiunto traguardi importanti o quando avevi bisogno di parole, forza ed energia.

Adesso che sei adulta e il tuo viso è più sicuro, il tuo sguardo più dolce, le tue ossa più spesse sento di dovertelo, di doverti rimandare quel che penso.

Mentre scrivo sono qui in giardino ed elaboro, cerco di comprendere cosa dire di numerare i pensieri, fumo la mia sigaretta e ad ogni tiro che aspiro sento che le riflessioni sono tante. Non dovevo dirti, però, che mentre scrivo fumo, sei sempre stata contraria, hai sempre avuto il timore di dovermi salutare prima del tempo. Quale tempo poi? Non sappiamo a quale fermata scenderemo. So già che mi risponderesti con un’affermazione del tipo “Così sicuramente anticipi l’arrivo”, sento già la tua voce, il tuo timbro arrabbiato e preoccupato è giunto alle mie orecchie in un baleno. Ma non perdiamoci in chiacchiere perché queste righe non sono per me, sono per te ragazzotta.

Non sono mai stato in grado di rimandarti le mie emozioni, l’enorme stato di fierezza, di orgoglio che mi allargava il petto. Sono stato fiero di te in diverse occasioni, tante: il tuo diploma, la tua laurea, i saggi di danza, le premiazioni ai concorsi di pittura, la tua lealtà nei rapporti, il tuo amore per gli animali ma Ornella niente è stato in grado di farmi sorridere, di farmi apparire sul viso l’espressione di vanto quanto il riflesso del tuo sorriso sereno. Ti ho visto divenire donna, sicura, ti ho visto sempre più leggera, ho imparato a riconoscere il tuo nuovo passo rilassato, mai incerto.

Mi stupivo io stesso di come tu fossi diventata così, così, così TU. Ad esser sinceri non lo considero merito mio, forse della mamma che, in fin dei conti, è stata più in grado di starti vicino.

Ricordo, e spesso vorrei non farlo, quando hai cominciato a scegliere il silenzio o, forse, non lo hai mai scelto ma si è imposto come unica via. Eri ancora una ragazzina, tu ti sentivi già donna ma non lo eri ancora. Ricordo la chiamata dei medici del pronto soccorso, la corsa in auto per raggiungerti. Se solo tu avessi saputo, ti saresti inferocita. Non tolleravi quelle brusche accelerate, anche in questo caso sento il suono delle tue parole, tu che con ironia provi a diminuire i chilometri orari, sottolineando che in ospedale avrei dovuto raggiungere te da genitore e non da paziente.

Bastardi, li avrei uccisi tutti con le mie stesse mani, immediatamente appena ho visto il tuo corpicino avvolto in una coperta su una barella e il viso coperto di bende. Guardai tua madre, fu un interminabile discorso dentro due pupille che si sfiorano. Non una parola, i dottori, le infermiere ci spiegarono, la tua amica Emma era confusa, sotto shock, continuava a ripetere “Non sono riuscita a fare nulla” battendosi addosso un estremo senso di colpa con ogni lettera pronunciata.

Bastardi li avrei cercati e con le mie stesse mani…, e invece no, mi fumai tante sigarette, una dietro l’altra, si molte e aspettai quella flebo finire, aspettai notizie di un medico. La mamma ti teneva la mano, io non riuscivo.

A volte sai che servi, serve che tu faccia qualcosa, qualsiasi cosa, anche una briciola di quel che pensi eppure non riuscivo, provai sensi di colpa atroci, come quelli di Emma, forse più.

Bastardi, avevano provato ad oltraggiarti, ti eri difesa e ti avevano colpito in viso, Bastardi, la tua amica urlava, impaurita, andò al bar a chiedere aiuto, chiamò l’ambulanza. D’altronde cosa poteva fare.

In un solo istante la tua prorompente allegria svanì, le bende soffocarono ogni cosa. Andai a lavorare, la mamma rimase con te, ogni giorno toglieva quelle fasce, medicava ferite, ti accarezzava, medicava così anche i lividi del cuore. Si mostrava forte per te poi andava in cucina a buttare le garze usate e piangeva sottovoce. Un genitore vorrebbe assorbire ogni dolore pur di toglierlo al proprio figlio.

Non hai voluto denunciare l’accaduto, inutile dicevi. Avevi una priorità: te stessa, volevi guarire, disintossicarti da quello schifo. Non ci riuscivi.

Io e la mamma parlavamo di altro, iniziammo perfino ad evitare l’argomento, quasi a rimuovere e negare l’accaduto. Forse questo ti ha fatto male. Non sapevamo cosa fare, come reagire.

Il dolore di chi ami fa più male.

C’eravamo ma un giorno hai capito che avevi bisogno altro per tornare a respirare. Le cicatrici sul viso stavano per rimarginarsi, tu eri sempre più a pezzi.

Non uscivi di casa mai, sostavi sul divano per interi giorni, lunghissime ore, indossavi pigiami larghi, non rispondevi a nessuna telefonata, neanche a quelle della tua amica Emma, restavi nel tuo silenzio, spesso persa fra le pareti. La notte ti svegliavi, urlavi, rimanevi ansimante, tremavi, piangevi, ripiombavi nel divano.

Riuscivamo a dirti soltanto “passerà”, scappavamo. Dobbiamo ammetterlo.

Il dolore di chi ami fa più male.

Non so quando l’hai scritta ma ricordo quando tua madre mi mostrò la tua lettera, rimase accanto a me mentre leggevo, volevo interrompere, non riuscivo a superare le prime righe.

Nellina, perdonami se questo spazio di carta sta diventando un luogo di ammissioni di colpa, se sto facendo rinvenire ai tuoi occhi l’incubo ma non è questo il fine. Quello che voglio dirti è “Complimenti”, complimenti Nellina mia, i miei occhi te lo hanno comunicato sempre, io forse mai e oggi sento di doverlo fare.

Sei diventata una donna straordinaria, un’insegnante eccezionale, una magnifica moglie e tutto è passato da una scelta, da un’imposizione a te stessa, un cambio di rotta che ti ha fatto scivolare dal divano ancora logorata e ha sussurrato con l’ultimo filo di vita “Basta, devi fare qualcosa”. Hai capito che quel trauma ti stava uccidendo, che quella era una morte lieve e l’unico filo di vita ti ha suggerito di andare, hai scritto anche questo nella lettera, andare da una professionista era l’unico modo che individuavi per tornare a vivere, dovevi provare a farti aiutare,

Eravamo un po’ titubanti ma il tuo istinto vitale ti aveva dato la mappa, indicato la via. Noi speravamo nel tempo, tu sei sempre stata più avvezza a cogliere il senso, la consistenza delle cose. Hai imparato nuovamente a camminare, come si fa dopo una brutta caduta, un brutto incidente.  Non so di preciso cosa accadeva tra te e la Dottoressa in quell’ora. So che ti accompagnavamo e le prime volte ci chiedevi impaurita di rimanere fuori dal portone, avevi paura, una paura immane. I primi incontri ti presentavi con abiti larghi e sgualciti, i capelli sporchi e arruffati, via via qualche dettaglio di cura veniva aggiunto, lasciavi davanti al portone una parte che di te non era.

Sei tornata a parlare, hai invitato a casa la tua amica, per poco tempo dicevi. Non eri pronta, non riuscivi ad affrontare lunghi incontri. Troppo faticoso, estremamente quasi quanto una gara senza allenamento, rimanere a galla in acque troppo profonde. Ci spiegasti che via via spariva l’eco di voci che sentivi nella testa quando c’era troppa gente intorno. La tua vittoria fu andare al concorso di pittura, attraversando l’ansia, i corridoi affollai, gestendo l’intera situazione aggrappata alla vita con quell’equilibrio ritrovato, non più precario, infido.

Non so cosa avveniva ogni Martedì durante le sedute ma ti ho visto tornare a dormire serena senza bruschi risvegli, senza improvvisi attacchi di terrore, senza l’ombra della morte addosso.

Piccole grandi ferite rimasero aperte per un po’, chi ti conosceva bene se ne accorgeva, tu ti facevi spazio nel mondo ugualmente. Continuavi ad andare alle sedute, era parte della tua routine, andavi lì in modo differente, tornavi sempre più ricostruita, ristrutturata.

Ti guardo oggi e desidero dirti che sei stata e sei straordinaria, eventi come quello che hai vissuto lasciano il segno, incupiscono, induriscono, trasformano, rendono le tracce di quel che è stato spine che tengono distante il cosmo. Tu no, tu no, sei riuscita a trovare la via per continuare a vivere, a vedere la bellezza intorno, nel cuore degli altri, negli individui, quella forma di essere che ti aveva colpito, ti aveva ucciso la psiche. Eri subito riuscita a specchiarti nelle ferite che non si sanavano. Ti aveva trafitto il ricordo, le immagini che irruente si ripresentavano, vivide, ti avevano ucciso i suoni che nella mente rimbalzavano, le paure che crescevano, il silenzio immenso, grande come una voragine. Rivedere quella pellicola di un inferno senza poter premere stop era la disgrazia che si ripresentava.

Non è facile non soccombere, seguire quel filo di vita che è rimasto sottile in mezzo alle macerie, tu non solo ce l’hai fatta ma sei stata un’ostrica. Hai trasformato quello che è arrivato, estraneo, dannoso, lo hai lavorato ed è diventato perla.

Sei diventata ancor più sensibile, creativa, pronta a cogliere i vissuti dell’altro, le particelle di lacrime che non vengono fuori, sei riuscita a rendere più raggiante il tuo sorriso. Sei stata incredibile, sei riuscita in un’impresa a dir poco difficile.

Oggi vedo la tua determinazione, lo sguardo sereno e rilassato, il modo di amare, di fidarti che sei riuscita a raggiungere, riprendere, riconquistare. Adesso vedo quella pancia che cresce fra le pareti di una casa che hai costruito, scelto insieme a Ignazio. frutto del tuo lavoro, della tua passione, dei tuoi sacrifici, dei vostri sacrifici. Adesso vedo la tua eleganza e vedo molto più, vedo tutto, vedo l’incanto che sei. E non sono abbastanza queste parole, non potranno mai esserlo perché nel tuo volto, nel tuo essere solare c’è il tesoro più grande di una storia, quella di mia figlia.

Adesso osservo come ti guarda Ignazio e so che anche lui riconosce il valore di quel che sei, riconosce il sole oltre la storia di sua moglie.

Il disturbo post-traumatico da stress

Un individuo che ha vissuto in modo diretto o indiretto a un evento traumatico che lo ha esposto alla morte o a episodi violenti potrebbe sviluppare un disturbo a seguito di questa esperienza difficile. L’individuo potrebbe presentare sintomi legati alle sfere della depressione, dell’ansia e/o sintomi dissociativi. Nello specifico, potrebbe evitare luoghi o situazioni che ricordano l’evento traumatico, sviluppare fobie, presentare sintomi d’ansia, rivivere l’esperienza traumatica come se fosse reale, esperire disagio sociale, elevata reattività fisiologica ad alcuni stimoli associati all’evento, distacco dal mondo degli affetti e degli interessi, umore depresso, difficoltà a ricordare alcuni frammenti dell’evento. In alcuni casi, possono presentarsi comportamenti auto-lesivi, irritabilità, ipervigilanza, scoppi di collera. Nello specifico, per fare diagnosi di DPTS si fa riferimento al DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali giunto alla sua quinta edizione). E’ consigliato un intervento psicoterapico e, solo se necessario, su prescrizione del medico, un intervento farmacologico (sempre in combinazione con la psicoterapia e mai da solo).

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