La fatica del kintsugi

Un racconto sul Disturbo da gioco d’azzardo

Riprova a chiamare ripetevo a mia figlia, mi guardava stupita, perplessa. Sapevo bene che aveva effettuato l’ultima telefonata esattamente due secondi prima. Riprova a chiamare, percorrevo la città mentalmente, individuando dove e cosa poteva esser accaduto ma riconoscevo che era per me impossibile percorrerla tutta, ero confusa, disperata, eccessivamente angosciata. Mi sedevo, mi alzavo, ritornavo alla finestra ad osservare il parcheggio sotto casa con la fortissima speranza di rintracciare fra le auto blu la sua auto blu. Era per me scontato dove fosse, mi preoccupavo dei dettagli, l’enorme paura di veder crollare tutti gli sforzi fatti, le ore di terapia, i sostegni e gli abbracci. Per pochi istanti mi coglieva il dubbio di altri problemi e allora non so bene neanche io se la paura diminuiva o aumentava. Strofinavo le mani sul viso, mi stringevo le braccia al petto, sospiravo. Frapponevo momenti di lucidità ad attimi di mera ansia. “Ragazze mie” cercavo di fornire una parola di conforto alle mie figlie ma risultava paradossale e assurda perché chi davvero stava cedendo ero io. Le mie ragazze erano abbastanza in gamba a prendere in mano la situazione. “Una resta in casa, l’altra esce. Vai tu?”. Si mettevano d’accordo da sole, applicavano il piano d’azione. Io mi sentivo persa, smarrita, preoccupata e arrabbiata allo stesso tempo. Perché? Perché? Mi ripetevo mettendo le mani fra i capelli, mi poggiavo sul bracciolo del divano per cercare di ancorarmi a qualcosa, mi guardavo intorno per non sprofondare nel vortice dei miei sentimenti. Miriam e Simone avevano compreso e si erano diretti in quelle zone del paese in cui era probabile ritrovare papà. Erano bastati tre tentativi prima di accennare, indicare l’auto blu. Si guardarono turbati, rassegnati, scesero dalla macchina con l’atteggiamento tipico dei figli che si ritrovano a fare i genitori e non riescono a virare da quella naturale tendenza che nasce dagli eventi. Quel momento che sembrava il punto di arrivo in realtà era la scelta che costava maggior fatica. Continuavano a chiedersi se entrar subito, se evitare di aggiungere quel tassello di umiliazione insito già in quella situazione. Mi Chiamarono, chiamarono me per placare le mie fortissime preoccupazioni. Arrivai di corsa, non mi accorsi neanche di aver indossato il cappotto di Miriam. Scesi dall’auto e dirigendomi verso l’ingresso di quel maledetto locale feci un respiro di sollievo e allo stesso tempo un respiro utile a raccogliere la forza necessaria per affrontare tutto, per mettere equilibrio tra la rabbia e il conforto. Sapevo che quella situazione generava in me stati ambivalenti, la voglia di urlare e quella di abbracciarlo come un bambino indifeso. Come arriva un uomo a logorarsi, chiudere lucchetti che lo vincolano in prigioni di schermi, a una dannata macchinetta da gioco? Cosa accade prima di entrare in questa gabbia della ludopatia? Gli occhi, gli occhi di mio marito, delle ragazze, bastavano gli occhi per comprendere tutto, bastavano gli occhi distrutti, bassi di mio marito e quelli stanchi, inermi dei miei figli.

Chiusa la porta di casa il dolore si faceva più forte, sentivo sopraggiungere in mio marito, in me, il senso di colpa, la rabbia, l’umiliazione, a ritmi alternati, nonostante tutto arrivava anche quella vocina, quella subdola vocina che suggeriva di giocare ancora, che quella poteva essere la mano fortunata. Io sentivo, parallelamente, rabbia e tenerezza, la razionalità di chiudere un rapporto, l’amore per restare. Io sentivo i miei figli, i loro turbamenti, le loro tristezze, li sentivo amareggiati, confortarsi a vicenda, entravo solo per abbracciarli, non riuscivo a dire altro mentre mi chiedevo cosa stessi sbagliando, cosa, cosa avevo sbagliato. Silenzio, c’era molto silenzio in casa, nessuno riusciva a tornare alla routine.

Mio marito non proferiva parola, lo vedevo sul divano immobile, i pensieri veloci su rotaie invisibili. Vedevo il vano tentativo di strapparsi dalla pelle quella giornata, quell’ora da cui non si era saputo tirare indietro. Soffriva della sua stessa ferita.

Ci ritrovammo seduti in quelle poltrone azzurre, di fronte a noi il Dottor Gaudo ci osservava, teneva una penna fra le dita. Eravamo tornati da quello psicoterapeuta, ci sentivamo sconfitti, era successo ancora.

“Succede ma non è una caduta se oggi siete qui, vuol dire che non volete tornare a come eravate, vuol dire che sapete cosa fare adesso”.           Avevi affrontato con impegno il percorso precedente, determinato ma un po’ distante. Questa volta ti sentivo scosso, ti sei aperto a riflessioni che mai avevo captato, avevi sviscerato parti di te che mi hanno lasciato senza fiato, senza parole. Ti punivi con gli insulti, maledicevi te stesso, scoperchiati mondi inesplorati, cosa non ti piaceva, cosa avresti voluto nella tua vita, per te, per noi, cosa ti spingeva a isolarti in quei monitor, a credere che tutto potesse arrivare da una stupida bocchetta sputa-monete che risucchia e non da’. Srotolavi pergamene di emozioni, frustrazioni e sconfitte, sbattevi i piedi a quel secondo che ti tira avanti e a cui non sai dire no. Ti ascoltavo, intenerita e arrabbiata. Ti ascoltavo, ti strinsi la mano, io c’ero ma a quel gomitolo andavano tolti i nodi.

Il Dottor Gaudo guidava i tuoi pensieri, ti chiedeva spiegazioni, ti invitava a scomporre in mille pezzi quella pulsione incontrollata di avvicinarti a quell’aggeggio, a quella macchinetta da gioco. Provavate a capirne insieme i passaggi, ogni emozione provata, taciuta, quelle che avresti voluto urlare. Sembravate vagare senza senso, senza mappa, senza meta eppure il Dottore ti stava accompagnando lentamente verso te stesso senza zavorre.

E così in un mondo in cui lo scheggiato si butta via, ho deciso di provare a riparare non con le mie mani inesperte e a loro volta ferite. Occorreva un falegname abile per vedere un cambiamento , occorrevano filamenti d’oro.

Le sedute con il Dottor Gaudo richiedevano uno sforzo economico e psichico notevole, risollevare vecchie ceneri da terra, sentir arrivare negli occhi pulviscolo che non fa più vedere eppure placato il vento la strada torna a esser chiara, l’atmosfera trasparente. D’altronde per non perdersi occorre sacrificare qualcosa, attraversare insieme la tempesta con la paura di naufragare, con la sorpresa di arrivare in soleggiati porti.

E così abbiamo riattaccato i cocci, ripreso il bello di noi, il nostro matrimonio e ci guardiamo oggi come i cinesi guardano l loro vaso riparato con la tecnica del kintsugi all’ingresso di casa. Sì loro mettono proprio lì, nel punto più visibile di casa il vaso rotto in mille pezzi e incollato con polvere d’oro, riacquista valore ciò che si ricompone.

Il Disturbo da gioco d’azzardo

Il Disturbo da gioco d’azzardo nel DSM-5 rientra nei disturbi da addiction non correlati a sostanze e comporta la necessità di giocare una quantità crescente di denaro con lo scopo di raggiungere l’eccitazione desiderata. Il soggetto diventa irritabile e irrequieto quando tenta di ridurre o interrompere il gioco. Sentimenti difficili, stati di angoscia portano la persona a giocare e poi utilizza bugie per nascondere il coinvolgimento nel gioco. La dipendenza mette a repentaglio relazioni significative e lavoro. Il soggetto con disturbo da gioco d’azzardo potrebbe appoggiarsi ad altri per trovare denaro.

L’intervento psicoterapico può essere fondamentale per interrompere il circuito di dipendenza che si è instaurato. Vanno indagate la motivazione a intraprendere un percorso di questo tipo e la tendenza a minimizzare o normalizzare il problema (frequente in questi casi). Alla psicoterapia può essere associato un intervento farmacologico e/o un intervento di rilassamento (per lavorare sulla tendenza all’impulsività tipica delle persone con dipendenza da gioco d’azzardo). Istituzioni o centri possono aiutare nel percorso di disintossicazione e riabilitazione (gestione del gioco controllato nella gestione dell’astinenza e nella fase finale del trattamento).

Immagina da pixabay

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