Diversi da quel che eravamo, identici a quel che siamo sempre stati

Un racconto sul disturbo neurocognitivo maggiore

So che siamo abituati alle pagine di Nicholas Sparks e che “le pagine della nostra vita” risuonano nella mente ma sapete, non pensavo di essere io a specchiarmi in quelle vicende. Non pensavo o forse semplicemente non ci speravo.

Ho abitato in questa casa per cinquantadue lunghissimi anni, qui sono stato sposo, qui sono nati i miei figli, nella parete in cucina sono ancora annotate le altezze di Anna, Emma e Nicola e quelle di tutti i nipoti. Non quella di Giovanni, ovvio, ha soli tre mesi ancora. Mi piace occuparmi della casa, fare qualche manutenzione, soprattutto amo ritinteggiare le travi del gazebo dove da sempre nella stagione estiva abbiamo fatto colazione, soprattutto dal momento della pensione in poi, anni in cui il tempo cominciava a non inseguirci ma a possederci. 

Io ed Elvira avevano festeggiato il nostro cinquantesimo anniversario di matrimonio a Giugno dello scorso anno, e proprio in quel gazebo ci erano scambiati nuovamente delle promesse in un momento intimo e riservato a noi, ai nostri figli, ai nipoti. Erano promesse mature, diverse dalle prime pronunciate con grande emozione, erano ricordi e suggerimenti sulle modalità con cui esserci.

Avevamo preparato un aperitivo in giardino, avevano decorato casa e ogni momento era stato speciale, ne avevamo vissuto e impresso ogni tassello senza le preoccupazioni degli sposini che si guardano più intorno che negli occhi.

Ripenso a quel giorno mentre oggi mi ritrovo a percorrere il viale della città che porta a Residenza Flora, mentre mi siedo dall’altra parte di una scrivania in legno pronto a raccontare di me ed Elvira, di ogni cambiamento che avevo riscontrato negli ultimi giorni, forse mesi.

Era una tiepida giornata di Maggio, la tazza di latte e caffè caldo giaceva sul tavolo in attesa di ritornare leggermente più freddo, Elvira disponeva sul piatto sei biscotti, due fette biscottate. La solita routine del mattino, monotona ma rassicurante, identica ma stabile, certezza del risveglio. Si sedette, bevve un bicchiere d’acqua, si alzò prese un piatto e mise altri sei biscotti, altre due fette biscottate in un altro vassoio.

“Aspettiamo ospiti?” chiesi ridendo, lei mise una mano sulla fronte e oscillando il capo si diede della sbadata, ridemmo e ridemmo per ore.

Si una dimenticanza, capita. Nei giorni seguenti Elvira dimenticò di girare in senso antiorario la manopola del gas, la fiamma rimase accesa. Uscì di casa con due tipi di scarpe differenti, tornai indietro a recuperare la scarpa giusta.

Oramai avevo preso l’abitudine di ritornare in cucina e verificare se tutto fosse in ordine, soprattutto i fornelli. Percorrevo il lungo corridoio che dalla camera da letto conduceva al salone e poi in cucina e ultimamente osservavo le foto appesa alla parente con un certo sentimento di tristezza. C’erano le foto con i nipoti, le foto con le figlie ancora piccole, c’erano le foto del matrimonio, c’era foto in bianco e nero, sbiadite, vive.

Una mattina mi chiese di prenderle un foglio e una penna, mi incuriosii, andai subito verso lo studio, tornai, mi chiese chi fossi, era agitata, allarmata, spaventata. Rimasi allibito, “sono io”, continuavo a ripetere “sono io” e più lo ripetevo più il terrore nei suoi occhi si acuiva. Come può il cervello disonesto annerire l’immagine, gli occhi, il nome di chi è stato sempre al tuo fianco da anni, come è possibile, quanto infido e bastardo è questo meccanismo cerebrale. Dannazione.

In pochi attimi era tornata in sé ma quel giorno sentii deteriorarsi ogni frammento di quella torre, non potevo più far finta di nulla, non era più lei, è così, Elvira era diversa, la nonna è un po’ sbadata continuavo a ripetere ai miei nipoti, sapevo che non era più solamente quello. Mi fermai con le mani sugli occhi, rimasi in bagno seduto sul bordo della vasca in cerca di un equilibrio, di un appiglio, era arrivata Rosa, la gentile signora che ci aiutava con le incombenze quotidiane, approfittai della sua presenza per estraniarmi un attimo da tutto. Quando arrivavano le nostre figlie fingevo una serenità priva di preoccupazioni e speravo, incrociavo le dita, pregavo affinchè Elvira non avesse un’ “assenza” proprio in quei minuti.

Mi ero rassegnato e non ci facevo più caso se la stessa frase veniva ripetuta dodici volte nel tempo esatto di una pubblicità ma non riuscivo a rassegnarmi alla mancanza di luce del suo sguardo.

La sera andavo a dormire stanco e sfinito osservavo mia moglie distesa come una bambina docile stretta al suo cuscino. Mi ero trasformato in numerose figure professionali, infermiere, psicologo, assistente, avevo acquistato giochi di memoria, calendari differenti dai tradizionali per mantenere acceso l’orientamento, avevo stabilito delle strategie semplificate per non dimenticare luci e fornelli accesi, seguivo un metodo tutto mio per suddividere i farmaci da prendere in base all’ora e al giorno. Non dimenticavo mai che amava il limone sulla verdura e una goccia di cacao sul caffè. Lei stessa a volte lo dimenticava.

All’inizio quando si succedevano fasi in cui era lei e in cui non era più lei, cercava di approfittare dell’istante e quando la lucidità stendeva il suo velo scriveva dei biglietti per inviarmi le parole che non riusciva più a dire, i grazie che non riusciva più a pronunciare, i dialoghi che non riuscivamo più ad avere. Mi aggrappavo a quello, li rileggevo quando la rabbia mi assaliva, quando mi veniva voglia di chiudermi in bagno per ore. Via via dimenticò anche di scrivere negli attimi di lei.

Pian piano capii che non c’erano attimi in cui era lei e in cui non lo era, era sempre lei, Ma come fai a ritrovare la donna di cui ti sei innamorato, la stessa che prima amava cucire gonne adesso non sa più a cosa serve un ago, la stessa che ti guardava con gli occhi sorridenti adesso ha perso linfa.

Avevo provato ad acquistare per lei libri e riviste, avevo provato a comprare delle stoffe, aveva perso ogni entusiasmo per quella che prima era la sua passione più grande. Mi sentivo così triste a vedere la fiamma divenire fioca. Mi mancava immensamente quell’entusiasmo che faceva parte di lei, che era la sua essenza, quella forza che tirava fuori ad ogni ora del giorno.

Non ero più in grado di prendermi cura di lei, mi sentivo un disastro, non ero in grado di rimanere sveglio la notte quando lei scambiava mezzanotte con mezzogiorno, non ero in grado di rimanere paziente quando mi faceva la stessa domanda identica, non ero in grado di supportare il suo corpo sotto la doccia. Mi ritrovai a percorrere quel viale che porta alla Residenza Flora sentendomi in colpa, sentendo che l’amore non basta.

Non ebbi neanche il tempo di riflettere su quel che avevo visto, su quello che mi era stato spiegato perché proprio il giorno dopo un infarto mi colse di soppiatto e fu mia figlia ad accompagnare Elvira in quella struttura per anziani non autosufficienti. Avevano fatto finta di non vedere la realtà, assecondavano la mia messa in scena, il mio tentativo di nascondere la gravità della situazione ma non erano riusciti a rimanere inermi al fatto che la mamma in quel momento non era stata in grado di chiamare l’ambulanza. 

Erano le cinque del pomeriggio, orario in cui era solito arrivare nostro figlio Massimo, fu quella la grande fortuna o fu lì che si posò la mano di Dio come solitamente mi rispondono coloro che hanno fede. 

Elvira stava ore ed ore a guardare la porta, in attesa di qualcuno, me lo raccontò una cara operatrice, mia figlia li aveva aiutati a capire, lei non rispondeva alle domande, sorrideva ma rimaneva in un laconico silenzio che svelava tutta la sua tristezza, l’impotenza di uscire da quello stato indescrivibile. 

Io ero arrabbiato, arrabbiato come non ero mai stato, mai avevo urlato, mai avevo disubbidito agli ordini dei medici eppure quella circostanza aveva fatto svanire il Simone pacato e quieto che tutti sempre avevano descritto, avrei dovuto fare riabilitazione e dove mi mandavano? In una residenza identica a Residenza Flora. Mandatemi lì, maledizione, fatemi stare con mia moglie.  Continuavo a urlare, a chiedere che piacere provassero tutti a compilare moduli senza ascoltare il desiderio di un anziano moribondo. Stupida burocrazia. “E’ aggressivo” continuavano a ripetere le infermiere. Io continuavo a chiedermi se anche Elvira veniva “giudicata” senza conoscere chi era stata, com’era senza quegli avvenimenti.

Elvira continuava a fissare la porta.

Arrivai alla Residenza Flora dopo una chiamata straziante, con l’ultimo filo di voce che mi restava chiesi di incontrare i responsabili dell’ospedale e aggirare quell’iter farraginoso e inumano. Arrivai stanco e sfinito per aver combattuto una battaglia estenuante e inutile pur di sedere accanto a Elvira, come sempre, in quel momento che avevamo vissuto nei peggiori incubi. Non volevamo arrivare lì, preferivamo morire piuttosto che ritrovarci in mezzo a persone che non conoscevamo o forse si prima che il tempo tramutasse i loro lineamenti. Lo dicevamo sempre prima di scontrarci con gli eventi che si susseguono e ci siamo in mezzo. Ero accanto a Elvira, dove non importava, intanto ero riuscito ad essere lì, con lei. Adesso la sfida che avevamo davanti era adattare la nostra vita a quella dentro la struttura, capire se valeva la pena cercare di far conoscere agli operatori chi eravamo o adattarci al modo in cui loro ci vedevano, senza avere cognizione di chi eravamo stati quando i passi si muovevano svelti, i pensieri rapidi e coraggiosi, i desideri in valigia scalpitavano per uscire. Mi chiedevo adesso che tipo di anziano volevo essere, per quel che mi era permesso scegliere.  

Il disturbo neurocognitivo maggiore

Il disturbo neurocognitivo maggiore, comunemente noto come demenza, indica una patologia neurodegenerativa che comporta una compromissione, un deterioramento delle funzioni cognitive (memoria, attenzione, linguaggio,) Sono state individuate una fase preclinica della malattia (fase asintomatica), una fase prodromica (sintomatica con sintomi lievi) e una fase di vero e proprio disturbo (deterioramento cognitivo, disturbi psico-comportamentali spesso in concomitanza con varie patologie dell’età senile).

I casi di incidenza del disturbo sembrano aumentare in modo esponenziale. Occorre sottolineare che il disturbo differisce da un fisiologico decadimento dovuto all’età che prevede rallentamento psico-motorio, difficoltà di mantenere lo stato di attenzione, anomie e stati ansioso-depressivi legati alla stadio di vita.

Fondamentale è la prevenzione, stimolare le funzioni cognitive al fine di tenere allenate memoria, attenzione, memoria, linguaggio. In caso di diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore (demenza di Alzheimer, a corpi di Lewy, frontotemporale, cardiovascolare) risulta fondamentale un lavoro sul mantenimento delle capacità residue e delle autonomie (stimolazione cognitiva, supporto nelle attività quotidiane con terapista occupazionale), un lavoro psicologico sull’anziano e sul caregiver e un lavoro psico-sociale per evitare i sentimenti di isolamento, in modo parallelo è importante agire a livello motorio (fisioterapia, ginnastica di gruppo). Per questa ragione, le strutture per anziani divengono il luogo cardine dove vengono fornite le cure adeguate, per la possibilità di agire a livello multidisciplinare garantendo assistenza medico-infermieristica e assistenziale continua.

Immagine da pixabay

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