Molliche

“Riproviamo. Ancora una volta. Cinque, sei sette e otto. E, uno, due e tre”.

 Annachiara battendo le mani vigorosamente scandiva il tempo, si muoveva da una parte all’altra della sala lentamente. Le sue scarpine rosa le fasciavano il piede e lei oscillava le braccia seguendo la musica.

Improvvisamente si fermò al centro della stanza inseguendo e inserendosi nella sequenza della coreografia per guidare le sue allieve in quel passaggio complesso in cui passi rapidi, celeri si susseguivano e rendevano difficoltosa quella serie di otto.

Si fermò la base e iniziò ad applaudire, tenendo tra le gambe il telecomando con cui gestiva, faceva partire, interrompeva, metteva in pausa la musica.

Le ragazze ripresero fiato, scomponendo le fila ordinate su cui sostavano. Ma non fecero in tempo che Annachiara disse loro “Ripetiamo ancora una volta?”

Esauste ma sempre pronte ad esercitarsi, fecero un profondo respiro e iniziarono.

In quel piccolo centro, la scuola di danza di Annachiara era un luogo di arte e di incontro, un angolo di serena quiete e di frenesia.

Da quando aveva deciso di aprire una scuola di danza le difficoltà erano apparse notevoli ma non avevano fatto desistere l’insegnante dall’idea di portare avanti quell’ardua impresa.

Terminata la lezione, si era avvolta nel suo scaldacuore di flanella e aveva appoggiato la schiena allo specchio.

Negli ultimi mesi aveva frequentato alcuni corsi e in quelle occasioni aveva appreso e sperimentato alcuni esercizi di mindfulness che reputava niente male.

Passarono pochi minuti, scivolò il tempo e arrivarono anticipate dal suono di fragorose risate le bambine del primo gruppo, “le sue bambine”.

Annachiara accuratamente sistemò i capelli in una piccola coda colma di ondulati ciuffi di un colore scuro, nero, nero corvino. Si chinò per salutare con un pacato, accogliente sorriso le sue piccine.

“Rebecca, vieni”, la bambina corse sulle punte, il gonnellino di tulle dondolava lievemente.

“Come sempre hai lo chignon in disordine” e mentre lo diceva aveva già unito le ciocche e fermato tutto con una forcina.

“Vai” la incitò a raggiungere le compagne.

“Iniziamo con il riscaldamento”, avviò la musica e mettendo le mani intorno ai fianchi cominciò con dei pliè.

Annachiara seduta a terra correggeva le linee e le curve del piede delle sue allieve quando arrivò Ignazio che con un cenno affettuoso, oscillando la mano, la salutò. Lei lo invitò ad attendere.

Ignazio aveva appena concluso il suo turno pomeridiano quindi ne approfittò per rilassarsi un attimo ancora. Le poltrone della sala di attesa erano così comode. Le avevano scelte insieme quando ancora la scuola era solo un’immagine onirica vivida nella mente di Annachiara.

Si erano sposati due anni prima, in una calda primavera, in una chiesa a pochi passi dal mare e il suono delle onde faceva da eco alla melodia del pianoforte. Nelle pieghe del basolato era rimasto incastonato il riso lanciato per buon auspicio e il tintinnio dei bicchieri sfiorati per un brindisi erano ancora caldi ricordi nelle loro notti.

Ignazio lavorava in uno studio di commercialisti, era un umile uomo, dotato di una straordinaria intelligenza, di una inusuale sensibilità. Si erano innamorati quando nessuna attenzione era posta sull’amore, all’improvviso e in effetti fu immediata sintonia, fatta di sguardi e di caratteri, di idee e di impegno.

E poi un giorno, un normalissimo giorno d’estate, in piazza, seduti su quei tavolini in vimini del centro, inaspettata giunse quella domanda volta a riaffermare la certezza di voler restare accanto, di voler sempre rispecchiarsi negli occhi dell’altro al termine di ogni giornata.

Per alcuni anni Ignazio e Annachiara avevano vissuto all’estero per poter affrontare stage e prime esperienze lavorative che a Selluti, nel loro paese, tardavano ad arrivare.

Avevano condiviso quei periodi distanti da casa, dagli affetti, dalle tradizioni locali, dall’amato cibo del luogo e si erano poi ritrovati a riassaporare la bellezza di un tramonto sul lungomare e dell’odore di salsedine fra le strade di sempre, l’immensa fortuna di poter sentire il sole scaldare le membra, il mare distendere la mente, far da epilogo ad ogni sera.

Annachiara, in sala, stava ripetendo gli ultimi sautè prima di salutare le giovani allieve. Era la penultima lezione di quel Martedì.

Raggiunse Ignazio nel salottino all’ingresso, strinse le gambe al petto e buttò indietro la testa prendendo la mano del marito.

“Cosa mangiamo stasera?” disse, lasciando trapelare la voragine allo stomaco che sentiva da circa un’ora o poco più. Aveva una fame dannata e non desiderava altro che sedersi a tavola e ascoltare come era andata la conferenza di Ignazio addentando un buon pasto.

La sua fantasiosa e realistica immagine fu interrotta.

“Salve maestra”, le bambine andavano verso le mamme e lei le guardava con dolcezza e soddisfazione.  

Tornarono a casa. La loro dimora era piccola e discreta ma conteneva tutto ciò che li faceva sentire al posto giusto, nel proprio luogo, fatto delle loro piccole cose, dei loro desideri, dei loro ricordi, dei colori che li rendevano piacevolmente sospesi in un tempo del mondo che diveniva solamente loro, fuori e al di là di tutto, dentro un universo in equilibrio.

Stava facendo la doccia Annachiara mentre lui riordinava i piatti sulla mensola quando a lei sopraggiunse una preoccupazione. Immersa nel tran tran di ogni giorno aveva perduto la percezione del tempo e non si era accorta che qualcosa non andava.

Era incita di poche settimane e da lì a pochi giorni si ritrovò ad osservare quell’esserino fra linee scure di un’ecografia. Lui non riusciva ancora a crederci e accennava dei sorrisi, tratteneva rivoli di lacrime, l’accarezzava stupito. Lei era certa che sarebbe stato il padre migliore che una bambina potesse avere accanto e così fu. Sonia aveva un sorriso raggiante quando suo padre indossava il keeway e nella versione avventuriero la prendeva per mano e insieme, andavano ed esploravano ogni angolo del parco come se fossero nelle distese immense della savana. Sonia rideva a crepapelle e il suono del suo entusiasmo era inconfondibile tra le pareti di casa quando era in camera a preparare crostate per bamboline e orsetti. Sonia cresceva e imparava, scopriva il mondo con suo padre senza percepire quella che a pochi giorni dalla sua nascita era stata già riscontrata come una diagnosi senza alcun rimedio, un verdetto senza possibilità di cambiamento. Sonia era cieca, non poteva vedere, nulla, solo ombre e luci, niente di più.

Ricordavano perfettamente quando riuscirono a guardare in faccia i timori, i pensieri più intimi, sottotraccia, crudi.

“Saremo in grado?”

Seguì un lunghissimo e angoscioso silenzio.

“Ho paura Ignazio”

“Io sono sicuro di te. Ho una sola certezza, insieme abbiamo superato e possiamo superare ogni cosa”, l’abbracciò.

Nei giorni seguenti, Annachiara e Ignazio alternavano giorni di forza a giorni di voragini di timori, naufragavano impietriti e smarriti senza comprendere se quel passo, quel movimento, quella carezza, quello sguardo anche senza l’altro era utile, possibile, indispensabile.

Spesso Annachiara preoccupata, esausta, si sdraiava a terra. Spesso, accanto a lei si sdraiava Sonia. Divenne una consuetudine per entrambe, ritrovarsi sdraiate l’una accanto all’altra. I capelli come un ventaglio aperto sul parquet, come raggi di una bicicletta. Annachiara alzava il volume della musica e chiudeva gli occhi. Insieme percepivano le vibrazioni, le sentivano affiorare e scendere sulla pelle, le sentivano nella pancia, nello stomaco delle emozioni crude.

A lasciare increduli i suoi genitori era la fantasia di Sonia. Più di ogni altra cosa li lasciava esterrefatti. Da quando iniziò a giocare con le bambole sino a quando cominciò a saper utilizzare il pc emersero chiare le sue incredibili capacità. Riusciva a narrare storie, riusciva a descrivere episodi e luoghi con un’intensità di sentimenti e un’accuratezza tale da sembrare un dipinto di parole. Ogni sintagma veniva fuori come se venisse tirato su dal mare, ogni lettera bagnata di vita, ogni lettera salata e asciugata in fretta al sole.

A volte, Sonia, stava in silenzio per un’infinità di minuti, sfiorava ciò che si trovava di fronte a sé, la tovaglia, il tappeto, il portapenne, poi tornava immobile in silenzio. Iniziava a sfiorare la tastiera del computer e scriveva, scriveva, scriveva. Sonia in quei minuti non se ne stava immobile su una sedia ma con la fantasia vagava, immaginava, visitava terre e luoghi disegnati dalla mente, lambiti con le dita.

Annachiara, spesso, si fermava sull’uscio della stanza e soffiando sul bordo della tazza osservava la sua piccola. Sempre avvolta nel suo scialle bordeaux appoggiava la testa alla parete e sorrideva, fiera e stupita di quella dote così precoce, così limpida.

Accarezzava con il pollice la fede, la faceva scivolare sui polpastrelli come un sicuro, dolce appiglio. Aveva temuto per molto tempo che Sonia potesse risentire troppo di quel qualcosa di diverso.

Cresceva, era una ragazzina così in gamba, così furba, così sensibile e loquace. Si fermava spesso a studiare al centro danza della mamma e al termine delle lezioni ancora si sdraiavano per terra con gli occhi chiusi a sentire le vibrazioni sul pavimento. Frequentava il corso delle 16:30 e mentre la mamma si preparava per la lezione successiva lei si metteva cavalcioni su quell’ampio sgabello davanti al pianoforte in sala e sfiorava i tasti, facendo penzolare la gamba. Annachiara coglieva sempre ogni segnale, ogni accenno di un possibile sentiero, pezzo di identità che scorge e così quando venne Gaspare, il pianista, che lavorava per gli esami di fine anno gli suggerì di provare a capire se Sonia fosse interessata ad imparare a suonare il piano.

Fu così che la piccola presto diventò una eccellente studentessa, imparava velocemente e con grande entusiasmo.

Le sue competenze si assemblarono perfettamente perché cominciò a scrivere e cominciò a scrivere sulla musica, ad adagiare alle note le parole.

Sonia attendeva il termine delle lezioni per andare dal maestro Gaspare e ogni forma di stanchezza svaniva quando cominciava ad accarezzare i tasti del piano, veniva assorbita totalmente e qualsiasi momento “no” si allontanava sino a sciogliersi.

Dimenticava persino le aspre e nere parole che sentiva giungere da quelle ragazzine così alla moda che ogni giorno in classe apparivano sicure di sé e sempre pronte a denigrare e sminuire le sue particolarità, soffermandosi solamente sulla cecità.

Un pomeriggio, però, non bastò neanche il potere del piano a far sorridere Sonia che imbronciata se ne stava china sul suo sgabello.

“Cosa succede Sonia?”

Quelle parole banali toccarono un piccolo angolo del soffitto del cuore perché immediatamente scoppiò a piangere, a lacrimare, a perdersi in una cascata di un singhiozzante gemito, angoscioso e silente.

Tratteneva quel groviglio di gocce di tristezza da un po’.

“Sono così stanca maestro, così stanca”

“Stanca di cosa?”

“Stanca di sembrare una bambina normale, sana, piena di forza, di vita, senza ostacoli davanti”.

Parlarono a lungo e Sonia raccontò al maestro delle difficoltà con quelle due compagne di classe, delle dure parole che con graffiante ironia le si infilavano dentro le ossa, dentro i pensieri.

Il maestro Gaspare provò a far cogliere alla sua cara allieva le sfumature potenziali di quella salita così ripida, a direzionare le sue emozioni verso un canale nuovo. Il suo “limite” non era tale, era la particolarità che la portava su mondi diversi su cui difficilmente tutti gli altri, tutti noi, tutti loro poteva giungere, un mondo di sensibilità e sentire differente il cui vigore era indicibile.

Poi iniziò a suonare, a sfiorare i tasti, a muovere la testa avanti e indietro, trasportata dalle note, alleggerita da quel drammatico muto fardello.

Raggiunse sua madre al centro, si distesero sul pavimento come quando lei era bambina e con il cuore più quieto e la forza di sentirsi ricomposta raccontò alla madre quello che era avvenuto, lo raccontò a suo padre mentre guidava per accompagnarla a scuola il giorno successivo.

“Amore, tu sei ricca, ricca di musica, ricca di parole, ricca di energia. Tu sei e lo sai. Sei ricca di queste cose e puoi camminare a testa alta. E poi sei piena del nostro amore”.

Sorrise Sonia e percorse il cortile con un entusiasmo e una determinazione autentica, vivida, frizzante.

Mai perse totalmente quella fiducia in sé, a volte si affievoliva ma poi ripensare alla voce di suo padre, al pavimento della sala, al maestro l’aiutava molto, anche quando non c’erano più le ricordava tutto.

Annachiara, purtroppo, si era ammalata e nessuna cura era stata in grado di tenerla ancora con la musica nelle gambe, i piedi al centro della sala. Sonia non aveva sopportato il pensiero che sua madre aveva fatto tutto per lei ma lei non era riuscita ad arrivare in tempo dai medici. Sonia si era versata addosso colpe che sue non erano. Il dolore non l’abbandonò per molto tempo anche quando fingeva davanti a suo padre che da solo non era più lui. Papà Ignazio persa la moglie, perse una parte della sua luce che mai più si infuocò. Erano qualcosa in più di complementari e così dopo anni anche lui andò.

Forse andarono perché sapevano di poterlo fare, perché lei sapeva perfettamente camminare da sola. Andarono ma rimasero.

Rimasero nei testi e nelle melodie delle canzoni che compose negli anni, nelle parole che donò ad autorevoli cantanti, rimasero nei tasti pigiati e sollevati dal suono. Iniziarono a rimanere negli occhi di Mattia, incontrato per caso, rimasto per volere, per impegno, per scelta.  

E lui fu fiero di lei sempre, la guardava innamorato del suo modo di essere, dei suoi capelli, dei suoi modi da bambina nonostante la solida maturità che la rendeva creta cotta, formata.

Mattia amava quando qualcosa durante la giornata andava storta e trovava Sonia immersa, pronta a ritrovare la serenità attraverso gli esercizi su quella musica che sua mamma tanto le faceva inspirare.  

Lui amava riempirla di baci, di tenerezze, di pensieri color del sole.

“Amore, vieni, c’era una busta per te. Apriamo?”

Nel silenzio di un mattino era contenuta la curiosa del domani, di sapere e immaginare. Immaginava Mattia, immaginava Sonia perché attendevano. Saltarono sul divano, intrecciando le gambe. Lei continuava a ripetere “Leggi, leggi”

“Amore, si, adesso è ufficiale”

Una nota ed eminente casa discografica aveva acquistato i suoi testi e le chiedeva di collaborare ancora con loro.

Pochi giorni dopo in radio, mentre percorrevano in macchina il viale sentirono per la prima volta il brano cantato da un celebre interprete. Mattia fece ruotare il tasto lì sulla destra, le tacche del volume salirono e loro iniziarono a cantare, cantare, a squarciagola, felici.

Sarà stato quell’eccesso di felicità, sarà stata la sensazione di pienezza ma, ubriachi di spensieratezza, andando verso via delle magnolie, la casa della famiglia, Sonia capì che voleva dar ancora vita al centro danza di Annachiara, avrebbe reso quel luogo un centro di danza e canto, una palestra, un luogo dove le persone avrebbero potuto svolgere le attività, ritrovarsi, pranzare insieme, allenare e ampliare il loro talento.

Sonia ne fu certa. “Matti, voglio mantenere il centro”

Lui le strinse la mano. Sapeva che era la scelta giusta, sapeva che potevano permettersi di “correre il rischio”, di tentare.

 E così pian piano, le molliche sotto il piede delle perplessità iniziali non lasciavano la sensazione di prurito, di difficoltà a camminare ma le facevano solletico, un solletico che fa sorridere di gioia piena.

Immagine da pixabay

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