Orme di parole

Cronache dall’ospedale. Diario di una diagnosi.

Continuo a ripetere nella mia mente, in silenzio, con fermezza nei pensieri “Io ho la sclerosi multipla, io ho la sclerosi multipla”, lo faccio mentre lascio lo sguardo tra il cemento e la cupola di una chiesa che non riconosco, lo faccio mentre aspiro questa sigaretta che non dovrei fumare, sul terrazzino dell’ospedale che da qualche giorno è “casa mia”, comincio a riconoscere i passi nel corridoio, i tempi del mattino, i suoni dei carrelli, il cambio delle luci.

Continuo a ripetere “Io ho la sclerosi multipla” e quel pronome assume un peso notevole perché stavolta quella malattia parla di me. Sembra passato tanto tempo da quando ho deciso di non sottovalutare i sintomi, formicoli, parestesie, addormentamento degli arti, dolori, problemi alla vista. Sembrano essere trascorsi mesi eppure solo pochi giorni fa mi presentavo al pronto soccorso in bici, con la mia borsetta, io che ho sempre evitato medici, visite, controlli e che stavolta capivo di non poterne fare a meno.

Mi sembra così poco, così tanto perché è stato tutto rapido e improvviso. Mi sembra così assurdo perché nell’album di foto del mio cellulare l’ultima era stata scattata ore prima sulla costa ligure, ero lì sorridente e inconsapevole, camminavo senza sapere che quelle gambe stavano già per cedere.

Ogni secondo in ospedale mi sta mostrando cos’è il coraggio e sto sperimentando la forza che ho sempre tirato fuori e che mai come oggi ha dato dimostrazione di essere robusta e possente. Avevo scalato montagne impervie con zainetti di carta crespa, poi con zaini più robusti ed equipaggiati. Mi ero scontrata con ingiustizie e delusioni, come tutti d’altronde, un pizzichino troppo forse ma in questo reparto, in questa camera 11, letto 22 sento tornare l’amore che ho seminato, esplodere la vita che ho dentro nonostante la diagnosi inaspettata, tra esami dolorosi e fastidiosi.

Quanti volti arrivano per una parola, una carezza, un dono, un conforto, una risata. Quanti volti mi danno cure con dignità, rispetto e vicinanza. Quante persone non mi hanno mai fatto sentire sola, persa.

La mia mente riavvolge velocemente il nastro, ho impresso ogni sguardo, li ricordo tutti, ricordo i saluti gentili, ricordo la speranza di uscire da qui senza nessun “verdetto nefasto”, la speranza che è scivolata via.

E’ paradossale la sensazione di aver studiato per anni il cervello, le malattie neurodegenerative e di sapere che quelle lesioni, quelle placche non sono più immagini dei libri ma referti personali, le vedi sono le tue. E’ assurdo come con anima e passione provi a formare gli operatori sanitari, li educhi alla gentilezza e poi accade che arrivino a te e pensi che davvero la gentilezza è la chiave di tutto, la cura necessaria nella fragilità. Anime gentili e rare ne ho incontrate molte, per fortuna durante la mia permanenza all’hotel neurologia in questo agosto di ferie alternative.

Tredici lesioni. Tredici piccole macchie bianche. Il cervello non ammette tagli, il cuore ne ha tanti, profondi, inflitti nel tempo ma il cervello già scalpita con due lesioni, con tredici quasi si ferma.

La notte mi ritrovo a osservare l’angolo di finestra, i bordi delle persiane di plastica grigia e sento il blu cobalto cedere il passo all’alba, la luce diventa più chiara tra le tapparelle.

Sto a letto, le coperte bianche segnate dalla scritta “servizi sanitari” mi ricordano che abito questa camera ormai da giorni. Continuo a leggere, sorridere, mi sveglio nella notte, mi lavo, spruzzo un po’ di profumo, il mio, alla vaniglia per coprire quello di disinfettante, per ancorarmi a quel che sono.

Attendo l’andirivieni di medici, infermieri, ausiliari, oss, “Buongiorno cara come va?”, “Buongiorno facciamo il prelievo?”, “Buongiorno the o caffè-latte?”. Riposo a intervalli, annullo il mal di testa che mi assale chiudendo le palpebre, accasciando la testa su cuscini antidecubito e sogni.

Mi sento in standby nella vita. Attraverso corridoi silenti e ritrovo la mia malattia negli sguardi degli altri. Qui tutti sanno che sono la ragazza a cui è stata diagnosticata la sclerosi multipla. Chissà come sarà quando uscirò da qui. Sono pronta a fare la fisioterapia, a modificare qualche ritmo quotidiano, spero di non dovermi scontrare con nuovi limiti che mi “bloccano” le gambe, il passo. Camminerò a una nuova marcia.

C’è, non posso toglierla, si affronta.

Continuo a ripeterlo a me, a chi mi chiede come sto. Lo ripeto sorridendo anche se c’è stato un momento di urto con la verità, è arrivato quando mi hanno accompagnato al centro sclerosi multipla all’interno dell’ospedale. E’ stato forte scontrarsi con l’immagine reale di volti con la stessa malattia. I medici con assoluta e risoluta serietà affermano che si conduce una vita normale ma è stato lì che mi sono chiesta se davvero sarà così.

Ritorno alla mia stanza, letto 22, come la mia data di nascita per ironia della sorte. Qui si ritrovano amici, colleghi, datori di lavoro, ex pazienti. Quanto sono grata di aver intrecciato queste relazioni. Quanto sono grata delle persone e delle storie che ho incontrato.

In questa stanza oggi ci sono anche mia mamma e mia sorella che hanno percorso l’Italia in bus per arrivare da me, nonostante continuassi a ripetere che non era necessario.

Mio padre non è qui, mio nonno è in ospedale, stesso reparto a chilometri di distanza. Lui è rimasto in Sicilia ma il suo cuore è partito con la mamma, lo sento battere nell’ironia di mia sorella, nei loro abbracci. Ho sentito i suoi movimenti dell’anima dopo quel “pronto”, dopo la diagnosi, nel suo ripetere deciso “Coraggio”.

Per la mia famiglia occorrerebbero fogli dedicati, parole uniche perché ogni cambio del timbro di voce, ogni sguardo attento, ogni lacrima trattenuta, ogni sorriso emerso dalle ferite rappresentava l’amore puro, quello di una mamma che ha solo un obiettivo, quello di raggiungere la figlia, quello della sorella che sente di possedere lo stesso respiro, di risuonare alla medesima frequenza. Come si spiega un legame così intenso, viscerale a tal punto da essere due parti di una sola filigrana.

“La malattia comprometterà il linguaggio scritto o parlato?”, la prima domanda posta ai medici, perché le parole sono state sempre il nucleo della mia essenza, da psicologa e da scrittrice e posso accettare che si fermino le gambe ma il linguaggio no. Soprattutto oggi che davanti a questa diagnosi mi chiedo perché ho spesso fermato la mia penna, filtrato quel che avevo da dire per incasellarlo in una forma più precisa, in un modo più raffinato, in un contenitore meno trasparente che non mostrasse troppo me. Adesso, mi ribatte in testa questo desiderio incessante di essere me stessa nella scrittura, di mettere davvero un pezzo di me, più degli scalpiti del cuore per scosse d’amore ma per quelle scosse elettriche che adesso mi percorrono le gambe. Non voglio gli sguardi compassionevoli, gli incoraggiamenti, voglio che queste parole che il mio cuore ha traghettato su carta diventino concreta possibilità di esistere, siano degne di vita, quella che sto attraversando, che si palesa nei corridoi dell’ospedale pregni di dolore ma di un’umanità vera, rara, che per le strade non accade, saluti sussurrati, cenni complici dai vetri delle finestre, altri degenti, altri pigiami, altre storie, altri sorrisi rassegnati ma aggrappati alla vita perché ancora c’è qualcosa da fare.

 Ho forse già deciso di esporre l’interno di questo vissuto perché per una volta non mi importa del giudizio degli altri, ci sono io, con i capelli sciolti, gli orecchini di sempre, tanti cerotti sulle braccia, segni neri di prelievi doppi, di vene forate per far passare farmaci, farmaci che danno nausea, che mi costringono a chiudere gli occhi ma che tengo socchiusi perché voglio vedere intorno a me.

Sul tavolino in cui panni ripuliscono i segni del vassoio portato via ancora colmo di vivande solamente assaggiate e lasciate intatte, il pc rimane acceso, registro le lezioni di un corso che avrei dovuto seguire, qualche nozione rimane incastrata mentre le gocce scendono e raggiungono quell’ago sull’avanbraccio, lente. Scrittori esortano aspiranti scrittori a non preoccuparsi di quel che arriva all’altro. “Possediamo le parole, possediamo l’arte di utilizzare la carta per narrare qualcosa e le nostre parole non sono più nostre quando vengono lette e interpretate da un’altra pelle”. E’ proprio vero, c’è chi possiede la voce e canta, chi l’abilità di leggere rapidamente e immergersi in altri mondi, chi cura le piante, chi rende ingredienti miscugli e pietanze, io possiedo parole. Usarle, maneggiarle, metterle insieme, comporre tasselli di lettere può definire mondi, costruire dimensioni, castelli in cui abitare, può dare forma ai pensieri, modificare quel che accade delineando la struttura. Le parole possono modificare la forma dei passi.

Dopo otto giorni torno a casa, proseguo le cure, voglio passeggiare, porto la colazione a chi mi è stato accanto, agli operatori, ai medici validi e competenti che mi hanno preso in carico in modo eccellente, vado in palestra per salutare le mie amiche, sento la musica addosso, mi inonda di vita, sento la voglia di seguire i passi, onde di battiti. Sono a casa, accarezzo il braccio di mia sorella nella notte, è conforto, sorridiamo a piccoli banali momenti, ne assaporiamo ogni anfratto.

Torno alla quotidianità, sono in fila alla cassa del supermercato, per le strade della città, al bar, ripenso al noto aforisma “ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre”. Oggi ci penso ancor di più. Chissà quanti intorno a me parlano, si muovono con disinvoltura ma con aloni di cicatrici sul corpo e sul cuore. Un mese fa guardavo le mie foto orgogliosa di esser riuscita a mantenere il mio sorriso, i miei progetti nonostante l’amore disintegrato, l’abito bianco nell’armadio riposto a prendere solo polvere e non luce. Oggi guardo le foto e sento altra storia nelle linee dei miei occhi. Mi sembra assurdo che un mese fa ero lì, a saltare sul prato durante un concerto per poi scoprire che le mie gambe mi stavano lasciando. Le cure sono formidabili, la ricerca ha fatto passi avanti notevoli e tutti gli esperti prospettano una buona e regolare vita. Canterò ad altri concerti, spero sempre con mia sorella accanto. Lei che è qui oggi, lei che c’è sempre stata.

Purtroppo pensavo di ritornare subito ad essere me ma devo ripresentarmi al mio corpo, riscoprire i nuovi tempi. Provo ad andare, lenta ma provo. Voglio muovermi nel mondo ma non riesco. La testa è ancora pesante, le gambe assenti, ho la nausea. Voglio solo stare a letto anche se non è quello che desidero. Tutti mi chiedono cosa è stato a provocare queste lesioni. E cosa ne so io.

Sono a casa, sono stata coraggiosa e forte ma il mio inconscio elabora la notte, sa che la paura c’è. Ecco che l’incubo svela tutto, lo rende così reale. Nella notte emerge un sogno scuro, nero, qualcosa mi arriva addosso e io sul divano provo a fermare con la mano quella “vela” della nave che cade giù, ma il braccio immobile, le mie gambe completamente bloccate. Provo a chiamare aiuto ma non esce nessun suono. Mi guardo intorno disperata, il timore riempie tutto il sogno, assorbita dal divano, come dal mare in burrasca. Urlavo ma non riuscivo a emettere nessun suono, nessuna voce.

Mia sorella e mia mamma sono andate a fare la spesa. Non voglio disturbarle, voglio evitare dispiaceri e inutili fatiche ai loro corpi, voglio sempre preservarle da affanni. Si sono allontanate per pochi minuti e in quel tempo sono arrivate le lacrime, diverse, le prime. Hanno avuto il loro spazio, scendono con inevitabile accettazione. Struccano gli occhi, fanno colar giù il mascara mentre ascolto il monologo al ted dell’attrice Antonella Ferrari, madrina di aism. In lei mi specchio in modo speculare non solamente per empatia. Era necessario piangere, riconoscersi nelle parole dell’altro che sono anche un po’ mie adesso.

Vedo il treno andare, si porta via mia mamma e mia sorella. Non penso di possedere aggettivi adeguati per descrivere l’amore di una mamma che si è manifestato in gesti di commozione, gesti di vicinanza, loquaci sguardi che ripercorrono pezzi di vita, che si chiedono perché, che si stupiscono della bambina che diventa donna. Non conosco parole esatte per l’immensa forza che possiede tutto questo.

Torno sola in questa abitazione fatta di libri e quadri di sabbia e mare. Si ritorna a quel che sono, ai miei impegni, ai miei progetti, ai miei sogni. Attendo che vadano via alcuni maledetti strascichi di questo brusco scontro frontale ma sono pronta a ricominciare con il mio solito calendario, con qualcosa in meno, qualcosa in più. Paradossalmente con ancora più vita e grata in modo indescrivibile per ogni persona che mi è stata accanto con un messaggio, una carezza, un dolce, un passaggio, un pensiero, un libro, una chiamata, un aiuto, un sorriso vero.

E come dico spesso a una donna a me cara, prendendo in prestito le parole di un grande autore, “La vita va allargata non allungata”.

In ospedale, per le vie abitualmente percorse non ho mai perso la voglia di ridere, ironizzare su sfumature bizzarre, non ho mai smesso di cercare il sole, di sentirmi felice di possedere quel che ho, di sperare. Non voglio svanisca.

Ci saranno altre storie, altre sensazioni, altre sfide ma da qui si ritorna a camminare, si ritorna a ballare.