Via XX Settembre

Il rumore del martello sulle tavole aveva lasciato spazio al silenzio e la Dottoressa Gillardi si era immersa perfettamente in quell’assenza di suoni. Osservava, meticolosamente esaminava ogni dettaglio di quella libreria senza fronzoli, bianca, a blocchi, identica a quella che già aveva nella parete attigua.

Avvolse il suo petto nell’ampia giacca e orgogliosa rimase a scrutare ancora e ancora quella libreria.

“Dottoressa, va bene?” chiesero gli operai e lei annuì soddisfatta.

“Grazie” aggiunse, legando i suoi capelli rosso mogano.

Li accompagnò e tornò ad osservare il mobile, respirò profondamente. Sembrava stesse prendendo tempo per immagazzinare nella memoria la fotografia mentale di quell’angolo della stanza.

Le sue scarpe sprofondavano nel tappeto color sabbia e porpora su cui sostavano le poltrone.

Diede un rapido sguardo ai libri posti uno sopra l’altro a formare lunghe colonne e aveva già una vaga rappresentazione di come andassero disposti in ogni blocco.

I suoi libri di letteratura greca, i saggi di psicologia, i grandi classici e i romanzi di notevoli autori contemporanei.

Quel luogo si modificava, rimaneva sempre più suo.

Si accasciò sulla poltrona rosso porpora e guardò l’orologio che teneva al polso. Socchiuse gli occhi e balzò in piedi. Si avvicinò alla scrivania e aprì l’agenda verde.

“Ho ancora dieci minuti” pronunciò ad alta voce e si fermò qualche istante ancora. Seduta sullo sgabello della scrivania alle cui spalle un grande quadro raffigurante il bacio di Klimt emanava luce con quei richiami dorati e quei manti avvolgenti.

Quello studio era incantevole, perfetto. Ampie finestre da cui filtrava molta luce, la scrivania in vetro, il largo tappeto e quelle poltrone porpora il cui schienale tirava a sé l’intero corpo, tenendolo protetto dagli alti braccioli.

Luogo di rinascita, sedile del viaggio, cabina di pilotaggio, ampolla di narrazioni e storie quello studio era una nave pronta a salpare, girare al largo, tornare al porto.

Al terzo piano di quel condominio di via xx Settembre era ubicato lo studio della Dottoressa Gillardi.  In quella via, in quel quartiere aveva sempre vissuto sin da quando era una giovane studentessa universitaria colma di curiosità e ambizione, colma di insicurezze e desiderio di arrivare a quello studio tanto immaginato, agognato, ora così presente, così reale.

Il quartiere era oramai casa, i vicini erano oramai visi di ogni giorno, il postino oramai riconosceva subito dove e a che orario poterla trovare.

In una monotona routine reggeva l’equilibrio e la stabilità.

Il vero motivo per cui, forse, la Dottoressa Gillardi aveva deciso di rimanere lì era il balcone della cucina. Se avesse potuto sarebbe rimasta lì anche nelle più fredde giornate di inverno.

Provate a immaginare un parco, uno di quelli dove la fitta vegetazione cresce ordinata, dove fiori di piante grasse nascono prodigiosi e rigogliosi senza fretta con il sopraggiungere delle stagioni, nascono grazie all’afoso caldo mediterraneo.

Immaginate sentieri tra gli alberi, sentieri di ghiaia, sentieri di sabbia, qualcuno che passeggia in silenzio, qualcuno che pratica yoga sotto un carrubo.

Il balcone aveva i suoi occhi puntati su quella zolla di natura tra il cemento dei palazzi e il tavolinetto in ferro battuto, con le due sedie color carta da zucchero si sporgeva proprio su quel paesaggio. Quante volte Lidia aveva letto accovacciata su quella sedia, aveva sentito scivolare i minuti del tempo senza accorgersene mentre poggiava i pensieri tra i rami degli arbusti a lei cari.  Quante volte Lidia aveva sorseggiato il suo tè verde lì al terzo piano di via xx Settembre.

Negli ultimi anni anche Lolly aveva conosciuto la meravigliosa sensazione di addormentarsi accarezzato dalla brezza che dal giardino giungeva oltre le ringhiere verdi. Lolly, un cocker dal pelo color avorio, viveva con la Dottoressa da circa quattro anni e si era abituato ai suoi ritmi e alle sue consuetudini.

La Dottoressa Gillardi, da quattro anni, aveva iniziato a leggere tenendo Lolly sulle gambe, accarezzando le sue orecchie.

A volte, la sensazione della città grande, della metropoli svaniva dentro l’obiettivo di un clichè, dentro il focus di uno stretto scenario.

La città immensa svaniva e restava la sicurezza di una piccola fetta di sicuro spazio, familiare, conosciuto, noto.

Il lunedì la Dottoressa Gillardi scendeva al bar sotto casa. Niky la barista le preparava un fumante cappuccino e conversava con lei. Leggeva molto Niky, romanzi, poesie, gialli seguiva le ultime uscite ed era piacevole conoscere e sentire i pareri sulle novità letterarie.

Pagava, tenendo stretti i manici della sua borsa, e salutando calorosamente con una fragorosa risata senza un apparente, reale motivo risaliva in casa. Inseriva le chiavi nella serratura della seconda porta quella accanto alla sua abitazione e si ritrova nella sala ricavata a fianco, quella del suo studio.

I pazienti erano tanti, tanti davvero. L’agenda non aveva più righe bianche, l’inchiostro blu, le cancellature rosse, i segni di pennarello avevano invaso ogni orario possibile.

La Dottoressa Gillardi era stata, era e sicuramente sarebbe stata ancora per moltissimi la fonte di luce, la possibilità di una nuova strada, la guida, il viso, la voce, gli occhi rievocati dalla mente come eco della quiete, come eco della forza, come eco del presente, del vecchio, del nuovo, dei passi da compiere e compiuti, l’eco di sé, della relazione concreta, stabile, vitale.

La Dottoressa Gillardi era una donna, una professionista nata da semi di tempesta, da semi di banchi consumati, di esami complicati, di ferite e perdite, di successi che non fanno rumore, senza boati e applausi ma di grande impatto, la dottoressa era un colonnato nato da pagine sfogliate, pagine strappate, pagine di libri detestati, disconosciuti, risfogliati, tollerati, illuminanti, banali.

La Dottoressa era creta di pagine, pagine di quando era una studentessa di architettura illusa di essere nata per creare, disegnare case, piantine di palazzi, corridoi e scale, prima di comprendere che desiderava ristrutturare le dimore interne, arredarne le stanze senza impianti elettrici, di risvegliare il giardino senza linfa. Una mappa di quegli anni era ancora viva, utile, dentro. Aveva capovolto il tavolo, aveva gettato vernice sulla parete bianca, aveva cambiato totalmente le sue intenzioni, i suoi progetti. Aveva avuto coraggio, forse era stata fin troppo folle o forse troppo razionale per farlo davvero. Ma sentiva di dover diventare, di dover essere, di voler essere una psicoterapeuta.

Accompagnò l’ultimo paziente alla porta quel giorno.

“A lunedì. Arrivederci”. Chiuse la porta di legno chiaro e andò a prendere la borsa, spense le luci, prese il cappotto, sistemò i capelli e prima di incamminarsi verso l’auto nel parcheggio controllò se in casa tutte le luci fossero spente.

Quella sera, attesa da molto, andò dal suo amico Roberto. Da tempo avevano acquistato i biglietti per lo spettacolo di Einaudi al teatro Magnificenza. L’idea di farsi trasportare da quelle note li aveva lasciati esterrefatti prima ancora di arrivare.

Seduti nei palchi laterali, si guardavano e in silenzio si scambiavano euforiche sensazioni prima di tornare a sprofondare nelle melodie, nei suoni intensi dell’orchestra.

Tornavano in mente immagini della propria storia personale, si sentivano i flauti e i violini fra le orecchie e il cuore.

Terminato il concerto, senza parole per poter esprimere pienamente l’esperienza condivisa, fecero due passi per arrivare alla macchina. Camminando elencavano una serie di locali così da scegliere quello dove fermarsi a sgranocchiare qualcosa, a sorseggiare un bicchiere di vino. Arrivati davanti l’auto, però, la dottoressa Gillardi socchiuse gli occhi e sbattendo le mani sulle sue gambe disse “Lo sapevo”.

Una multa, alquanto cospicua tra l’altro, li attendeva sul parabrezza.

Lei aveva pagato il ticket ma era volato giù, finendo tra l’acceleratore e il freno, lì’ dove l‘ausiliare del traffico ovviamente non poteva vederlo.

Sapeva che poteva risolvere facilmente la faccenda ma l’idea di doversi destreggiare tra uffici, sportelli e dipendenti di ogni genere era già una gran seccatura.

“Eh vabbè”, mise la multa nel portafoglio e accettò quello che, comunque, non avrebbe potuto cambiare.

Il giorno dopo, aveva già programmato di andare nella spiaggetta della Cala Riva così decise di non lasciare che la rabbia e il dispiacere interferissero e di andare a risolvere la questione multa solamente dopo.

Sicuramente sarebbe stato più sopportabile dopo aver sentito la sabbia umida e l’onda del bagnasciuga sfiorarle la pelle.

Purtroppo la calma raggiunta non fu abbastanza visto che il personale dell’ufficio reclami arrogante e sgarbato le aveva comunicato che non era possibile annullare il verbale.

Non le rimaneva che chiedere a un avvocato come procedere, cosa fare. “Mi mancava solamente questa perdita di tempo” disse al telefono a Roberto mentre si apprestava a raggiungere l’unico studio legale che conosceva. Aveva sempre letto il nome sulla targa, si trovava a pochi metri dal suo condominio.

 “Prego si accomodi” disse l’assistente, un giovanissimo ragazzo che probabilmente svolgeva il suo tirocinio e assurgeva a mansioni poco adeguate al suo futuro ruolo ma d’altronde tutti hanno fatto gavetta e hanno imparato ad essere umili così.

Sprofondò in un divanetto in pelle così basso che per rialzarsi fece fatica. Forse solo atleti, avvezzi a eseguire serie di addominali come torture sarebbero riusciti a risalire da quel divanetto senza versi sgradevoli e senza compiere bizzarri movimenti.

Non si limitò e comunicò il personale suggerimento di cambiare divano all’avvocato a cui si presentò con una stretta di mano. Rise e le diede ragione, poi le indicò una sedia, stavolta comoda e abbastanza alta da non far fatica.

“Dottoressa Gillardi, mi dica tutto”

L’avvocato Pervi aveva un timbro di voce così giovane e intenso e un atteggiamento così sicuro e gioioso da darle la sensazione che avrebbe risolto la faccenda in un batter d’occhio e con serietà.

Aveva una barba scura che non gli donava un aspetto trasandato piuttosto una parvenza non patinata, non simulata.

“Torni pure venerdì, le farò trovare la pratica e i moduli e nel giro di pochi giorni risolveremo tutto. Stia pur serena”

Si scambiarono un’ulteriore stretta di mano, un accogliente sorriso e si salutarono.

Gli incontri si susseguirono, la multa fu annullata ma il dialogo fra loro si fece così interessante che continuò, continuò davanti a un caffè e divagò, si mosse verso isole diverse dalla professione, varcò la soglia della vita privata, degli interessi, delle manie, delle vicissitudini di ogni giorno.

Andava firmato ancora un ultimo documento e l’avvocato Pervi, con la sua giacca blu andò personalmente allo studio della Dottoressa Gillardi. Lei non lo attendeva e rispose al citofono perplessa.

Si accomodò sulle poltrone porpora dove si sedevano i suoi pazienti, le porse la carpetta con il logo dello studio legale. Si complimentò con lei per la personale organizzazione dello studio e per le sensazioni che emanava.

Si salutarono, sentendo una tensione diversa, forte, magnetica.

Ciascuno dei due temeva di non trovare un ulteriore pretesto per rivedersi, stringersi nuovamente la mano, ritrovarsi con un alibi per dialogare davanti un caffè.

Non riuscirono a lasciarsi la mano, i corpi protendevano sempre più verso l’altro, quel tappetino davanti la porta sembrava legare le suole delle scarpe al pavimento. Nessuno voleva allontanarsi, sfuggire a quello spazio in cui era possibile sentire il profumo dell’altro.

La tensione era troppo vivida, oramai troppo vicine quelle labbra affondavano il desiderio nelle dita ancora strette in quel saluto che divenne più sciolto, divenne una carezza.

Le labbra vicine, ancora troppo lontane, si osservavano con bramosa attesa. Quell’attimo diviene il più denso di vita, importante, inciso nella memoria.

Caddero nel vorticoso turbinio di passione e quegli incontri di tenerezza e desiderio, di chicchi tostati e dialoghi, di chiacchiere di ogni genere continuarono per molto tempo.

Entrambi, lui e lei, che oramai adulti e affermati credevano che il loro benessere fosse completo, raggiunto, dentro gli impegni della settimana, dentro la propria professione, nella gestione delle situazioni delle persone che giungevano nei loro studi, entrambi riscoprirono un nuovo amore, un nuovo equilibrio insieme.

Ancora adesso, la mattina, sorseggiano insieme il loro caffè mentre Simone sfoglia il suo quotidiano e Lidia. controlla le sue mail.

Ancora adesso Simone e Lidia a fine giornata, ridono e scambiano racconti guardandosi negli occhi seduti al balcone del terzo piano di via xx Settembre.