L’eco dell’odore di scorza di limone

di Federica Falzone

L’odore di scorza di limone che impreziosiva il pan di spagna appena sfornato era così familiare che ogniqualvolta Ginevra lo sentiva giungere, sospirava e alzava lo sguardo, appoggiava le mani sul marmo della cucina e sorrideva. L’ordine del mondo le inondava il cuore. Era a casa.

Quell’ampia cucina accogliente era la dimora della sua creatività, del suo passato, della sua strada che diventa oggi e domani, che diviene passione e concretezza. Ginevra aveva costruito quell’universo di dolcezza e adesso era un amaro caffè e sale. Sì, adesso aveva perso ogni deliziosa fragranza aromatizzata, aveva perso tutto sotto la gelida e crudele richiesta che appare così distante eppure arriva a distruggere come un terremoto, come un improvviso attentato sugli imponenti edifici del mondo.

Erano trascorsi giorni da quando il suo sorriso si specchiava nel bianco dell’abito in pizzo e si perdeva, riproponeva fra i fiori panna e fra i pasticcini e lo zucchero, fra la musica e i grandi alberi del parco. Splendeva il sole nei suoi occhi e tutto era lucente, era un giorno di sentimento e festa, di emozione e raggiante bagliore. Era un giorno in cui la complicità degli occhi si rendeva ancor più vivida fra le luci e le note ma da lì a pochi giorni tutto ciò, la nuova vita che si creava, il loro nuovo cosmo ad un tratto divenne timore e paura, la primavera si riempiva di tempeste battenti.

La ragazza sempre solare, dai modi gentili e raffinati era riuscita con gran fatica a creare un piccolo locale ben arredato, curato in ogni piccolo minuscolo dettaglio, in cui offriva ai suoi clienti torte e dolci. La pasticceria era un piccolo angolo di meraviglia e incanto, un luogo brillante e delicato in cui potersi rilassare su un comodo divano posto fra librerie con ampi riquadri, in cui poter trovare la crema perfetta e la cioccolata ideale per far svanire ogni pensiero, per dimenticare qualsiasi cosa.

Ginevra aveva adagiato il suo libro di ricette trascritto a mano sullo scaffale in cucina e aveva scelto ogni libro sulle mensole in sala, accoglieva i clienti con un sorriso sincero e tutto era vivido come lei aveva sempre sperato, desiderato, immaginato. In ogni preparazione sentiva la presenza della sua amata nonna e ogni volta che osservava la sala colma di persone felici, sospirava e parlava con lei in silenzio “Hai visto, nonna?”. Sapeva che lei poteva sentirla e che osservava con lei quella sala. Come avrebbe voluto poter stare lì seduta con lei anche solo per un’ora.

Una sera, mentre le luci della sala erano quasi tutte spente e il bancone era oramai vuoto, le campanelle della porta suonarono e un uomo con accortezza scostò la testa e chiese “Scusate, so che siete in chiusura ma c’è un dolce per me?”. Ginevra non rispose subito, si accertò prima di capire se fosse uno scherzo, se fosse tutto al sicuro. Quel dolcino divenne una richiesta frequente e Svevo diventò un viso caro a Ginevra. Si fermavano spesso a parlare, si sedevano sui divanetti e finalmente la ragazza dai lunghi capelli ondulati riusciva a vivere quella sala, accasciando la testa sui sedili in pelle bianco scuro. Il pomeriggio leggevano qualche pagina, sorseggiando un caffè prima di riprendere i loro quotidiani ritmi lavorativi e pian piano la loro stima e l’affetto provato crescevano. Ginevra vedeva quelle scene oltre il tempo e le sentiva parte di una routine che sarebbe durata a lungo, lui non ancora. Ma si baciarono e lui non riuscì più ad andar via da quelle labbra, dai suoi occhi abbaglianti, dalla sicurezza che conduceva i suoi sogni nonostante le titubanti ossessive paure.

Non immaginava una vita senza il suo sorriso, la complicità che li avvicinava, senza la passione che li faceva accarezzare con gli occhi, senza la serenità assoluta che l’essere insieme portava l’uno all’altro e per questo un giorno sentì istintivo e fulmineo quel forte impulso di chiederle di restare, di sposarla. E si ritrovarono lì emozionati, si ritrovò commosso nel vederla lucente e preziosa, lì nella loro casa, lì a sostenere i loro più grandi obiettivi. Lui la spronò sempre, la incoraggiò ogni secondo nel perseguire le aspirazioni che le sue doti gli sussurravano urlando frenetiche. Lei, che tanto lo stimava, lo sosteneva ogni giorno e le si poneva accanto in quel percorso che alla sua vera realtà lo doveva far arrivare. Svevo, infatti, lavorava come consulente nell’azienda del paese ma Ginevra sapeva ben riconoscere le luci che gli appartenevano e mai si era fermato quel bagliore. Svevo aveva in sè la grande capacità di disegnare e dipingere. E quella lo avrebbe portato lontano, reso felice.

Profumava di vaniglia la loro casa e dopo una giornata di lavoro, si lasciavano avvolgere da quei cuscini soffici, morbidi come distese di petali di orchidea e si baciavano lentamente mentre la tv accesa faceva da sottofondo al loro tempo che si intrecciava. Tutto il loro piccolo mondo era l’immenso che desideravano e non si aspettavano di dover ricreare ogni tassello di quel villaggio del cuore. Ginevra sperava di sentire sempre quell’odore di limone sotto l’albero davanti la pasticceria, lì, da nessun’altra parte. Eppure…

Ginevra, infatti, fu costretta a trasferirsi per anni lontano dalla sua terra, lontana dal mare siciliano da cui tutti vanno via per cercare lavoro. Lei il lavoro lo aveva qui ma tutto svanì purtroppo quando arrivarono loro, senza nome e volto ma con un grande eco. Eppure sembrava tutto così distante, così irreale, così svanito oramai.

Tutto iniziò quella mattina, in quella giornata che iniziava come le altre ma si apprestava a divenire incisa nella memoria, ripetuta e raccontata per mille volte, con mille emozioni differenti, con rabbia, con tristezza, con rassegnazione, con rabbia ancora e ancora. Quella mattina di primavera che ancora calda non è, un signore che spesso andava al bar a fare colazione con un pezzo di torta all’arancia e un caffè macchiato, quel giorno si avvicinò alla cassa per pagare e sussurrò a Ginevra, “prego e tenga pure la mancia”,porgendole cinquanta euro e, con un sorriso ambiguo, continuò “le servirà quando dovrà ristrutturare tutto il locale”. Ginevra non capiva, era sconvolta, perplessa, agitata. Andò subito da Svevo ma niente riusciva a rassicurarla. Poi si accontentò di pensare a qualche banale allusione. E invece no, da quel giorno iniziarono a sparire gli allestimenti esterni, iniziarono a trovare le piante del giardinetto bruciate. Quel signore tornò più volte a fare colazione con altri signori ben vestiti e che sorridevano in modo malvagio. Non disse nulla Ginevra ma quando le azioni divennero più forti ed incisive cominciò a chiedere ai negozi vicini che furono molto evasivi e si limitarono a dare risposte brevi e di circostanza. Si sentiva sola e neanche l’abbraccio di Svevo riusciva a rasserenarla e portarla lontano dai pensieri pressanti, opprimenti, devastanti. Si era persa l’ irresistibile dose di euforia e passione quando si lavorava in quella cucina, una volta accogliente, una volta dolce, una volta serena dimora. Si era persa la voglia di condividere e far entrare i clienti, di farli accomodare in quei divani la mattina o durante l’ora del tè. Si era perso o meglio se lo erano portati via, in modo così silenzioso da apparire tutto inesistente, tutto solamente nella mente eppure pian piano come bruciavano le foglie delle piante così bruciavano le attività del locale e le sfoglie nel forno dimenticate per la distrazione. Sì, perchè i malfattori erano sempre lì a sorseggiare il loro caffè e a far sentire la loro ingombrante presenza in quel piccolo mondo che prima era un fiore fra le mani e ora era quasi cenere. Non dicevano nulla ma urlavano e scaraventavano pugni con le loro infinite ore passate lì, a girare le cicche delle loro sigarette su posaceneri e sui banconi. Rapine frequenti, troppe. Una sera dieci colpi di pistola sul vetro e poi una notte accadde un evento estremo e da lì per Ginevra non vi erano più dubbi. Una notte, una notte di Novembre, scassinarono il locale, accatastarono tutti i mobili al centro della sala e diedero fuoco ad ogni cosa. La luce si era spenta sui banconi e sulla gioia della loro vita che era iniziata insieme fra l’amore e i muffin al cioccolato e marmellata. Si era allontanato il dolce sapore della sacher ed era giunto l’odore della plastica ardente. Ginevra iniziò a piangere davanti alla saracinesca e davanti ai fiori ormai svaniti e nascose il suo viso fra il petto di Svevo che le faceva da cuscino, da scudo delle sue infinite angosce. Si guardarono e capirono che lottare non poteva più condurli a nulla, si guardarono e mentre lui l’accarezzava decisero di andar via. Non erano disposti a pagare grandissimi quantità di denaro per sopravvivere, per portar avanti i loro desideri di limone. Decisero di andare e ricominciare a Perugia. Quella cittadina medievale li accolse con arte e silenziosa gentilezza, le diede modo di donare sapori di sicilia ai cittadini di Perugia e che lì vivevano ma lontano avevano lasciato il cuore, i cari, i ricordi. Ginevra e Svevo avevano cominciato a sentire care quelle mura di pietra che incorniciavano quell’angolo tra il cielo e il basolato, avevano nelle loro immagini le vie di cioccolato, l’arco della mandorla, il rosso stendardo. I loro baci sotto la torre ormai erano intrecciati ai loro respiri e alla loro memoria di cacao e limone. Eppure se pensavano che a portarli lontano dal loro mare, dalla loro terra, dai loro abbracci materni erano stati loro, la loro rabbia ancora era fortemente acida e aspra, dura. Le giornate a Perugia erano divenute quotidiana gioia e lo sguardo si sapeva orientare come un bambino nella sua culla. Era casa, era normalità aprire l’uscio della pasticceria e sorridere al giornalaio di fronte augurandogli buona giornata. Il sole umbro era caldo adesso. Un giorno Svevo e Ginevra ricevettero un pacco. La paura di un tempo risaliva in un lampo ma tutt’altra emozione era pronta a venir fuori. Un libro era giunto loro, un libro pubblicato da un giornalista siciliano che con coraggio e bravura narrava i fatti avvenuti a tanti commercianti, a loro e proponeva fiaccolate, sit-in e turni condivisi per far respirare il commercio senza catene arrugginite di mafia e di ingiusta crudele manipolazione. Ginevra e Svevo si guardarono, senza sapere come reagire a tutto quanto e finirono per contattare l’autore di quelle pagine. Quante testimonianze, quanti commercianti avevano denunciato e aveva raccontato le loro storie a quel giornalista. Si sentirono meno soli, spaventati sempre, tanto. Non volevano a nessun costo risentire sulla pelle quella paura immensa, opprimente, di perdere le persone amate, come una marea invadeva dentro, i pensieri di giorno, nella notte. Lancinante preoccupazione. Che fare? Non volevano ritornare in una situazione di terrore e incubo continuo proprio adesso che Perugia gli aveva ridato un respiro, un equilibrio, un sereno stato di quiete e di sole. Decisero di rimanere lì, di non andare ma la rabbia continuava a essere forte. La paura aveva vinto. Andarono in Sicilia per delle brevi vacanze e decisero di affittare una piccola sala in cui preparare delle splendide colazioni per i periodi di Natale. Furono assistiti dai commercianti, dalle istituzioni e si sentirono protetti, confortati tanto da riuscire a organizzare periodi in cui la pasticceria riprendeva luce e sbocciava di nuovi colori. La catena di sorveglianza attivata dal giornalista era forte e tutti partecipavano con orgoglio. “Loro”, invece, con il loro sguardo arrogante e naturale, passeggiavano spesso davanti il locale, ancora e il timore cresceva, si rivivevano tremendi deja-vu ma Ginevra e Svevo sentivano il calore dentro dei cittadini e il coraggio di far riecheggiare il profumo di limone nella via del centro tornava grande, seppur per pochi giorni. Eppure era così intensamente potente. Si baciavano mentre lo zucchero a velo decorava il pan di spagna soffice e sorridevano, rasserenati dalla gente e dalle forze dell’ordine così sveglie, così presenti, così pronte a dire “No”. Un sogno non va pagato con soldi, sangue e paura. Il sostegno non può modificare strutture di fortezze ma sicuramente era riuscito a far rivivere alla coppia l’attività tanto amata. Non erano riusciti a tornare ma a Perugia, Svevo dipingeva spesso tele raffiguranti l’ardore della Sicilia, i suoi caldi colori a volte anneriti dalla polvere da sparo. Ebbero un gran successo quelle tele, voce di una realtà e di un popolo che si strofina gli occhi ma non li sgrana. E mentre si ritagliavano il loro dolce angolo di vita lontano, senza pentirsi di aver trovato serena dimora lì, erano un esempio per alcuni lavoratori, sognatori, che della salsedine non potevano proprio far a meno.