Lacrime di asfalto su pagine mai lette

Di Federica Falzone

Scostava i suoi lunghi capelli, li riponeva dietro le orecchie in modo tale da non ingombrare il volto, dar fastidio agli occhi, quegli stessi occhi persi fra i paesaggi rapidi oltre quel vetro opaco, quegli occhi stretti stretti dall’abbagliante e raggiante color del sole.

Si perdeva in immagini consecutive nella sua mente, in sogni e note. Sistemava le cuffie nelle sue orecchie con un movimento delicato e si abbandonava alle colline dell’entroterra siciliano.

La strada divenne sempre più colma di volti ed edifici. Giunta a destinazione, Vittoria si apprestò a mettere il suo zaino sulle spalle e la sua borsa sull’avambraccio, più per il peso che per moda.

Ma in quell’istante qualcosa scivolò dai sedili e si spostò sul pavimento scuro. Una foto, una cartolina, delle parole di inchiostro blu per niente sbiadito. Si fermò un secondo, incuriosita, stupita e un pò turbata. Si piegò e raccolse con un pò di fatica quel pezzettino di cartone leggermente stropicciato e un po’ sgualcito.

Era tutto così normale e possibile, tutto così unico e particolarmente anomalo. Guardò l’immagine e la fantasia iniziò a comporre infiniti tasselli di un puzzle ipotetico, di un puzzle possibile, di pagine infinite di una storia di interessanti gomitoli d grovigli intrisa.

Era una foto rappresentante un uomo di spalle che osservava delle montagne, indossava un grande zaino marrone, chiuso con dei cinturini di un colore più chiaro. Il cielo limpido sulla parte superiore della foto, dietro poche righe ad aprire nuovi possibili varchi di narrazione.

“Trovami fra le parole e un caffè, fra il sole e le panchine verdi, sul basolato dell’immensa bellezza”.

Si riferiva senza dubbio alla parte anteriore di quel bianco e stupendo spazio dinnanzi la cattedrale.Camminava Vittoria mentre la sua mente era altrove. Muoveva i passi su balaustre di selciato e cartapesta. Costruiva storie e vicende. La razionalità la riportava alla realtà. Non doveva rischiare ma in quella mattina soleggiata i suoi passi arrivarono lì. Ed ecco che varcò quell’angolo di strada che fa da ingresso a quella piazza rotonda e curata, con palazzi imponenti addolciti da gerani e viole attorno. A sottolineare ed evidenziare il perimetro di quell’aerea vi erano una serie di stand di legno. Un grande cartello realizzato a mano con fiori di orchidea dipinti diceva “Giornata del libro”. Girovagava tra i corridoi Vittoria e annusava quel sapore di libri e vaniglia, di caramelle e vento di primavera.

Sfogliavo qualche pagina, estasiata osservavo le vie e i balconi in fiore, gli sguardi della gente e mi perdevo. E fra volumi e romanzi, fra pagine e carta stampata ritrovai quella cartolina. Alzai lo sguardo e un uomo dai capelli scuri e dal sorriso colmo di vita mi disse “E’ una mia foto. Le piace?”. Iniziai a spiegare quanto mi aveva affascinato trovare quella foto sull’autobus e uscii fuori dalla tasca della borsa il cartoncino. Iniziammo a parlare senza fine sino alla chiusura della fiera, sino a spostare le nostre voci e i nostri pensieri in un tavolo di un locale poco distante. Quella giornata continuò trasportata da quell’atmosfera leggera come nuvole di sole e continuò il forte interesse, quasi magnetico, quasi destinato.

E non ha più parole quel movimento che proviene dalla vita, quel movimento incontrollabile di ciò che avviene e poi inizia, e diviene e non si può spiegare ma oramai c’è, oramai va, oramai non sa franarsi, fermarsi, arrestarsi ma va. E oramai continuava a compiere passi prima incerti, barcollanti ora decisi, mai stanchi, ora vigorosi e forti come turbini di un vento e di un mare possente che si rincorrono, scontrano, ritrovano sul filo di un orizzonte che li congiunge.

E così improvviso e rapido sei giunto tu, sono giunte le tue parole silenti, le tue parole assordanti su quella carta ruvida che racchiudo e conservo ancora, resa meno ruvida da quelle lacrime che mi hanno solcato le guance, dentro. Sei diario di questo scorrere del tempo che non so cosa vuole da me. Che non so che cerca qui.

I due furono avvolti da una limpida aurea e una breccia di zucchero a velo e determinata serenità, furono avvolti da spensieratezza e serietà, tranquilla gioia e trepidante meraviglia. Continuarono a parlare, a scriversi parole su un foglio di carta straccia e ognuno a turno aggiungeva una parola ancora e ancora una e ancora un’altra e si faceva componimento, poesia e si immergeva la luce nei suoi occhi, nell’angolo della sua anima che in un luccichio improvviso si racchiudeva. Rideva Vittoria e sorrideva lui alla piega del suo sguardo dietro un sorriso. Si avviarono per la piccola via che allontanava la piazzetta dal centro colmo di gente di ogni luogo per giungere, infine, nel grande giardino della città. All’improvviso irruppe quella mano che si unì e condusse lievemente alle loro labbra, stupito e incontrollabile, rapido e inaspettato, veloce ma vero. E immediatamente l’essere umano sente l’importanza di qualcosa. E quello era il caso di qualcosa di estremamente tale.

Che incantevole rumore fa l’anima quando scricchiolia di nuova luce, di inizio che di speranza si colora nell’attesa di divenire sicurezza stabile. Eppure anche lei sentiva che quelle mani sarebbero rimaste. Sembra assurdo, paradossale, prematuro e folle, eppure era proprio così. Vittoria e Leonardo si ritrovarono in quello stesso giardino, emozionati, mille altre volte ancora, ad annusare profumi di vaniglia e passione, serena protezione e amor che sboccia e diviene, scorre come ruscelli in un granaio, come tempeste su deserti freddi. Passò del tempo e si ritrovarono nella loro dimora piccola, umile ed accogliente, scelta per i suoi colori caldi e pacati, per la sua sensazione di soffice zucchero.

Era un amore sano, lucente, semplice. Meravigliosamente semplice che si nutriva di spontaneo affetto e deliziosa stima, di presenza e minuta allegria. Incoraggiavano i loro sogni ed ogni ostacolo diveniva più tollerabile insieme, meno bloccato il respiro per riprender a insistere ancora. Annaspare non era più possibile. Sognavano, sognavano da soli, sognavano insieme, sognavano il loro mondo, il loro semplice quotidiano futuro, sognavano qualcosa di così banale, vitale e nel loro sogno c’era una realtà da costruire per cui ogni giorno allineavano aspirazioni e azioni.

“Ciao amore, mi mancherai tantissimo. Torna presto che ti aspetto per le ultime pagine”. Leggevano spesso insieme. Lei accasciava la testa sulla spalla di lui e inseguivano quelle righe, velocemente facevano fare un grande effetto domino a quelle lettere e si attendevano nella curva sinuosa della pagina successiva che doveva essere sfogliata, voltata, posta indietro con le altre già andate, già giunte. Ma crolla tutto in un istante come crollano i ponti, di cemento fatti per rimanere intatti, immobili, per sempre. Come dovevi rimanere tu e invece brancolavi nel vuoto, su un’auto fredda senza la mia mano accanto, senza le mie labbra ancora, senza amore intorno. Solo cemento. Solo paura. Solo. Immagini su uno schermo si ripresentano ancora e si ripresenteranno ancora mentre io vedo solo te oltre quel notiziario e corro in lacrime verso la porta, scendo fulminea ma Genova è lontana. Maledetto impegno che lì ti ha condotto. Maledetto destino che qui ti ha portato via da me. E cado a terra su questa gelida scala di marmo mentre vorrei averti detto resta. Ti stavo aspettando. Dovevamo legger le ultime pagine di quel libro e adesso rimarranno lì per sempre, in attesa che tu ritorni. Ma non tornerai tu, non tornerà l’amore della tua pelle, dei tuoi occhi grandi.

Muore la mia vita oggi, crolla come vanno giù le macerie di questo ponte dannato che ti ha trascinato lontano, che per pochi secondi non ti ha permesso di baciarmi ancora, di vivere altri fotogrammi di noi ancora. Perché dopo di te, le macchine sono rimaste a un millimetro dalla fine, dal dirupo senza possibilità di replay. Troppa rabbia che non riesco a muovere perché immenso il dolore mi sotterra come uno scheletro ormai incupito e senza motivazione alcuna, senza amore, senza te.

Il dolore sembra non poter mai più diminuire. Perché sì, non svanisce ma non sembra neanche abbassar la sua prepotente maestosità. Invivibile, tremendamente insopportabile ma il tempo rende un luogo, un qualcosa, il tempo fa sì che le lacrime continuino a scendere ma che possano essere riposte in altri compartimenti.

E io le faccio custodire ai mille libri che doniamo ai bambini in ospedale e che hanno il tuo nome sulla copertina, io le faccio custodire a quell’albero colmo di lettere in quel giardino che per noi aveva il profumo di casa, il nostro respiro fra le foglie. E io le dono alla foto che porto dentro e alle tue mani che sento ancora sfiorarmi nei giorni di vento. E tutti osservano adesso quella foto che ci ha condotti alle nostre labbra perché adesso quella foto è un disegno sulla facciata di quell’edificio della piazza che per primo ascoltò il suono che la nostra risata insieme faceva. Stringo fra le mani una tua lettera che rimane oggi il tuo discorso per me,il mio conforto. E ti dedico il mio sogno, il nostro sogno al quale continuo a dar forma. Mi capita di fare alcune lezioni a bambini e ragazzi e a questi ultimi dico sempre di amare, amare semplicemente e immensamente e di non perdere quella mano che si stringe, di lottare quando sarà meno vigorosa la presa e godersi l’incanto di stringerla nel momento in cui le rughe giungeranno e l’amore sarà infinito, deciso, sarà stato sempre dolcemente lì.