La voce che giunge ancora

di Federica Falzone

 

Partiva alle 08:08 quel treno, le ruote motrici scivolavano sulle rotaie e il loro rumore si accordava a quel forte vento che spirava e scuoteva i lunghi capelli di quella giovane donna in piedi dietro la linea gialla, lì ad attendere il suo vagone giungere e allontanarsi. E mentre l’orologio posto in alto faceva da cornice alla corsa delle lancette, grande come una luna in cielo, quella donna con il cappello scuro si lasciava trasportare dai suoni della routine di una stazione sempre uguale, sempre così diversa, sempre così colma di saluti, addii, inizi, emozioni, statiche passioni, paure, musica, polvere, una stazione colma di contrasti e romantici passaggi. Ogni mattina partiva allo stesso orario, preciso, puntuale, mai scivolava maldestro e come ballerine quelle lancette si allontanavano per segnare le 08:08. Marta saliva quei gradini in acciaio gelidi. Ogni mattina le stesse azioni, abiti differenti, stessa voce che fuoriusciva dalle casse, stessi passeggeri a bordo, qualcuno talvolta diverso, si riconosceva immediatamente per gli occhi attenti a comprendere il momento giusto per scendere alla fermata designata. Si ripetevano quelle azioni, aprire le grandi porte in vetro dell’ingresso, raggiungere i binari, sostare qualche minuto lì dove il vento si incrociava arrogante e aspettava il fischio deciso. Quella mattina Marta era in ritardo e dopo una lunga corsa tra le vie del centro, mentre la tracolla della sua borsa in pelle scivolava sull’avanbraccio, giunse lì, al solito binario numero 4 con l’affanno, che non si appresta a divenire consueto respiro. Si voltò e si accorse che sul pannello alla sua sinistra erano affissi dei biglietti, poche parole ad attrarre come un magnete infuocato e cristallino la sua mente, potente onda di un mare d’inverno capace di farle muovere dei passi svelti. Cominciò a leggerle e mai avrebbe pensato che potessero essere parole destinate proprio a lei. Era tardi. Li staccò tutti con foga e con un sorriso spaventato, curioso, felice, preoccupato salì sul treno e si accomodò sui sedili consumati.

 

“Ti aspettavo, spero non ti sia accaduto nulla. Non ti ho vista stamattina e oramai non riesco ad iniziare una nuova giornata senza vedere il tuo cappottino rosso, i tuoi capelli muoversi insieme al vento, senza immaginare il profumo che emanano. Non arriva fino al binario 5 ma arriva perfettamente il tuo incantevole sguardo disperso fra le sagome e il cemento di questa stazione. Chissà cosa pensi. Mi piacerebbe se da domani ci fossi anche io fra ciò che impegna la tua mente”

 

Sospirò Marta e cominciò a ripercorrere con la memoria quelle mattine trascorse. Aveva qualche ipotesi, c’era quel ragazzo che si poggiava sempre sul muro a destra. Probabilmente era lui. Continuava a ripercorrere quella stazione ma ancora nulla, nessuna certezza. Accadde di nuovo il giorno seguente, Marta prese il biglietto e in un istante irrefrenabilmente veloce come un refolo svanì prima il treno di fronte a sé, facendo sparire anche quell’uomo alto con la giacca marrone che sempre intravedeva dall’altra parte e che le faceva dubitare potesse essere l’autore di quelle parole. Al suo ritorno, Marta lasciò il suo messaggio di risposta su quel pannello in legno su cui stavano affissi freddi comunicati e disposizioni, cambi di rotta e sui quali adesso brillano lanterne. I pomeriggi Marta andava spesso a riordinare una libreria del centro. Raccontò alle sue colleghe quanto fosse accaduto e mostrò loro i biglietti, la grafia di chi ancora non ha un volto ma che tanto spazio già ha preso. Lui, Umberto, non era riuscito a frenare la forte tentazione di lasciar su quella carta il suo pensiero, testimoniando che l’immagine di Marta aveva rapito la sua attenzione come un rapace che occupa i cieli ampi e irrompe sulla pacata esistenza delle nuvole. La osservava ogni mattina e lentamente quella persona che percorreva le stesse vie agli stessi orari divenne il pensiero, il nucleo di ogni sogno che prendeva forma nelle notti blu cobalto. Otto biglietti, petali di parole dell’altro, erano posti sui comodini di entrambi i giovani pendolari. Aveva un suono così diverso quel campanello, un profumo così diverso il mattino. E un giorno, quel gelido 8 Febbraio, qualcosa, come sempre, fece tardare Marta ma stavolta il ritardo la fece giungere davanti la bacheca proprio nel momento in cui Umberto, anch’egli in ritardo, stava posizionando il suo piccolo dono. Marta era così di fretta che non riuscì a bloccare i passi oramai spediti e svelti e finì sul corpo del giovane che stupito non riuscì a dir nulla, raccolse personalmente il messaggio e lo diede delicatamente alla mora lettrice che svampita e felice perse il treno perdendosi negli occhi di quell’uomo che le sembrava di conoscere da sempre. Marta e Umberto iniziarono da quel momento ad appartenersi davvero e a desiderare di non sentire tutto infrangersi, volare con un crudele e aspro soffio di vento. E quel vento non arrivò mai. E così trascorsero infiniti giorni parlando delle molteplici sfaccettature di ogni cosa, dei loro sorrisi, del tempo che li aveva condotti piano alle dita, nudi senza banchina fra la loro pelle silente e vibrante, mentre si appartenevano sempre più e sentivano di aver ritrovato il perfetto respiro della vita nella semplice quotidianità. Nulla li intimoriva, sentivano di essere forti insieme, come lampioni su asfalti ruvidi. Mai Marta sentì svanire la stima e la vivida temeraria gioia nel vederlo così pieno di iniziativa, così profondamente dolce e sensibile dentro quel viso, ai suoi occhi sempre piccolo. E mai lui sentì svanire lo stupore, mai sentì infievolire l’incantevole sensazione di bellezza che gli pulsava dentro quando pensava a lei. Era bella nelle sue curve e nei suoi lineamenti, bella nel suo modo di fare e nell’ondeggiare del suo passo, era bella quando sorrideva, quando china scriveva, quando esprimeva tutto ciò in cui credeva. Era così incredibilmente bella. Umberto lo diceva sempre “Era bella quando la vidi per la prima volta, era bella quando le vidi crescere la pancia, è bella ancora quando si perde ad osservare il sole dietro la finestra”. Lo affermava e lo raccontava quando, con i capelli bianchi e il passo lento, andava a far la spesa in quel piccolo negozio in periferia. Avevano già trascorso parecchi anni insieme e tanti tramonti avevano visto, quando un giorno stavano raggiungendo un luogo caro e improvvisamente lui smise di camminare, come se le gambe ad un tratto gli si fossero bloccate, rimaste immobili, paralizzate, ferme. Marta cercava di incoraggiarlo a proseguire ma nulla. Le sembrò addirittura uno scherzo ma Umberto cominciò a preoccuparsi molto, non riusciva completamente a muoversi. Marta gli strinse la mano ma invano riuscì a modificare qualcosa, lo rassicurò solamente per un istante. Raggiunsero il luogo in cui erano diretti e quando si ritrovarono seduti sulle poltrone del loro salotto con le librerie intorno, lì, perplessi si chiesero perché. Capirono dopo qualche mese che quell’evento rimasto isolato, in realtà, non era che l’inizio di un cambiamento critico che li portò a comprendere la gravità pian piano con la diagnosi effettiva che conclamò la presenza di una conosciuta malattia: il Parkinson.

 

“Il dolore maggiore lo provai quando guardando i tuoi occhi sentii il desiderio di prenderti per mano ma le mie mani erano rigide come sassi, chiuse come macigni di ferro, lo provai quando volevo, come a volte facevo, scriverti delle lettere ma la mia mano non riusciva a impugnare bene la penna e la mia grafia sembrava uno scherzo del demonio, un elettrocardiogramma impazzito. Ah Marta quanto amore ho sentito dentro quando ti vedevo così dolcemente forte preoccuparti per me, cercare di distrarmi con divertenti aneddoti e delicate carezze ma io odiavo me stesso perché desideravo soltanto vivere con te ogni giorno della mia vita sino all’ultimo, rendendo semplice e bello ogni secondo. E invece te l’ho reso un inferno. Nessuno capisce, fin quando non ci arriva, le ansie che sopraggiungono, le preoccupazioni dovute agli acciacchi, alle limitazioni che ti assalgono con l’età, la quale ti dà saggezza e ti toglie tanto altro. Arriva anche un po’ la paura che gli infiniti controlli medici rivelino qualcosa di tremendo, che ci venga a mancare la scaltrezza, la forza e ancor peggio l’autonomia, la dignità. Ecco, io non volevo vivere e renderti parte di questo inferno silenzioso che mi lascia con te e mi porta lontano da te. Ti amo Marta, come ho sempre fatto, sempre più”

 

“Andasti via in un giorno d’autunno, grigio e cupo come ciò che lasciasti dentro e intorno. Gli abbracci dei nostri amati nipoti, neanche quelli, riuscivano a farmi sentire il vuoto meno vorticoso e angusto. Senza te mi sentivo incompleta in ogni mia parte. E nelle foto che continuavo a sfogliare, ritrovavo i tuoi occhi, le tue espressioni così decise e intense, quelle che con la malattia erano sparite dietro lo sguardo un po’ assente; nelle foto ho ritrovato quell’umorismo che riempiva i nostri giorni e la dolcezza infinita che mi faceva sentire importante e fortunata ad aver trovato un uomo come te. Oggi ritorno qui come ogni giorno e in questo suono ti sento ancora vicino, in questo suono trovo la forza di ogni giorno. E’questo il suono che mi avvolge come mi avvolgevano i tuoi caldi abbracci”

 

La conoscevano tutti Marta, era l’anziana signora, dall’elegante portamento, con i capelli bianchi raccolti che si sedeva ogni giorno alle 08.08 sulla panca della stazione e ascoltava quell’annuncio che invitava ad attendere il treno dietro la linea gialla, quella voce era proprio quella del suo amato Umberto. L’aveva registrata quando lavorava alle ferrovie e Marta, aveva chiesto di mantenerla, di non sostituirla. Quell’annuncio non fu mai sostituito. Ancora oggi Marta la mattina si prepara, indossa i suoi abiti eleganti, le sue perle bianche, il suo profumo di vaniglia, rilegge i biglietti del passato e raggiunge la voce di suo marito alla stazione.